La questione del “nome“ che inasprisce da anni i rapporti tra Macedonia e Grecia è tornata alla ribalta sulle cronache europee dopo gli eventi degli ultimi giorni che si uniscono ad altri avvenimenti interni al piccolo stato dell’Europa sudorientale.
[ad]Qualche giorno fa l’Unione dei Giovani Agricoltori Greci aveva offerto un’opportunità di lavoro per fronteggiare la tremenda crisi economica che investe il paese. La zona interessata è l’Emazia, in greco Περιφερειακή ενότητα Ημαθίας (Imathia), una delle regioni che maggiormente soffre gli effetti della crisi economica con punte di disoccupazione che toccano il 50%. Il territorio fa parte della regione greca chiamata Macedonia centrale, da non confondere col vicino stato della ex Jugoslavia, che però i greci preferiscono chiamare Fyrom. L’offerta di lavoro, (per la precisione si trattava della raccolta stagionale di pesche) prevedeva una paga di circa 20 euro al giorno, vitto e alloggio spesati per 4 mesi e 6 giorni a settimana. Su 5000 posti disponibili soltanto una ventina di greci avrebbero dato la propria disponibilità mentre all’annuncio avrebbero risposto in gran parte macedoni, specialmente di etnia albanese.
L’avvenimento ha riportato in auge la questione del nome, che per una frangia sempre più consistente di greci si sta trasformando in una questione politica molto accesa, accentuatasi anche dopo il successo del partito di estrema destra alle elezioni del 6 maggio scorso in Grecia. La coalizione neonazista Alba Dorata ha totalizzato più del 6% alle ultime elezioni elleniche e tra i suoi obiettivi ci sono anche delle rivendicazioni territoriali che ricordano il primo novecento. Nikolaos Michaloliakos, 55 anni, fondatore e ideatore del movimento auspica in una Grecia “ariana” (propone di far mettere mine sul confine con la Turchia, per impedire così l’ingresso degli immigrati) e chiede indietro la Tracia e ovviamente la Macedonia.
Skopje, dal canto suo, sembra molto impegnata a risolvere i problemi interni che nelle ultime settimane si stanno avvicendando sulle sue strade: il 12 aprile scorso in seguito all’uccisione di cinque uomini di etnia macedone, nella piccola repubblica della ex Jugoslavia la tensione è salita sempre di più. Nonostante sin dall’inizio nè le autorità del governo nè la polizia abbiano formalmente accusato la comunità albanese dell’accaduto, l’opinione pubblica sostiene dal primo istante che il movente sia stato di natura etnica e che debba essere rintracciato nelle tensioni mai sopite tra i maggiori gruppi etnici, nonostante il trattato di Ohrid.
(per continuare la lettura cliccare su “2”)
[ad]Dal giorno dell’omicidio, nella capitale e in altri centri periferici della Macedonia è stato un susseguirsi di manifestazioni. L’ultima è avvenuta lo scorso venerdì e ha visto più di 10000 macedoni albanesi sfilare lungo le strade della capitale; secondo la polizia macedone sono stati evitati danni importanti durante la manifestazione, ma gli albanesi hanno continuato a reclamare maggiore rispetto per la loro comunità, appellandosi anche all’Ue e all’Osce e richiedendo un’apposita commissione d’inchiesta a Skopje composta da esperti provenienti da stati indipendenti per fare luce sui reali responsabili dell’omicidio. Sempre a Skopje un gruppo di cittadini macedoni ha organizzato una contro-manifestazione per contrastare quella avvenuta il giorno precedente: il gruppo di manifestanti superava appena le cento unità e inneggiava sotto al palazzo del governo con slogan razzisti e violenti.
Non sarà soltanto l’eterno alterco sul nome con i vicini greci a far “riflettere” ancora l’Europa sull’ingresso della Macedonia nell’Unione. Gli scontri interetnici degli ultimi giorni hanno evidenziato quei limiti su cui l’Ue non intende soprassedere: dalla libertà di espressione a problemi strettamente tecnici riguardanti la pubblica amministrazione, l’ingresso della Macedonia nell’unione è ancora in bilico. Strano il via vai virtuale che sembra essere in atto nell’Unione di stati del vecchio continente: mentre alcuni dei paesi membri sono sempre più tentati dall’uscirne definitivamente, altri continuano tra road map e tavoli di trattative, a far “la fila” per ottenere lo status di candidati.
di Valentina Di Cesare