La Serbia da Đinđić a Dačić: la necessità di riscattarsi dalla propria ‘casta’
[ad]Per chi c’era, per i suoi protagonisti positivi, il 5 ottobre 2000 non ha segnato solo la destituzione di un satrapo, ma una grande epifania morale, il frutto dolce della disperazione, del sangue e delle lacrime di chi per un decennio aveva lottato e fallito, di chi fino al dolore fisico aveva caparbiamente sognato di costruire un paese giusto, una società equa, un futuro di libertà di cui essere fieri, in patria ed all’estero. Per un breve lasso di tempo, quel sogno ha avuto anche un volto, quello di Zoran Đinđić, ed è solo per merito suo se i politici odierni, si chiamino essi Tadić o Dačić, si possono concedere quasi tutto, ma non di liquidare la promessa – nei fatti poco sostanziosa – dell’Europa. È stata proprio la Serbia passata, fantasma degli anni ’90 tramutatosi in pop-democrazia, a far pagare a Đinđić tanto caro il suo apporto alla causa. E tanto basta a rendere intollerabile l’idea che Ivica Dačić si possa permettere oggi di aspirare alla poltrona che fu di Đinđić.
Per tutto ciò, al momento non mi posso concedere di guardare il bicchiere mezzo pieno. Per questo non mi può bastare che la Serbia sia pacifica, o formalmente democratica. Si tratta di traguardi necessari, ma non sufficienti. Possono bastare per chi non è serbo, ma per chi in quel paese è nato, è una cocente, umiliante sconfitta sapere che fino ad oggi gli scarsi, restii progressi compiuti dalla Serbia, non sono altro che merito esterno dello stretto morso col quale l’occidente ha saputo imbrigliare il paese. E che i nomi che hanno corso e vinto le elezioni del 2012, non hanno, non hanno avuto e non avranno mai la caratura umana e politica per mostrare cosa la Serbia possa davvero fare, ed essere.
di Filip Stefanović