No, i cocktail non sono una moda: sono parte di noi
L’ingrediente fondamentale per quasi ogni cocktail è anche quello più difficile da trovare, se sei in Mesopotamia.
Attorno al 1770 a.C. il sovrano della città di Mari (oggi in Siria) si chiamava Zimri-Lim, ed era un gaudente. Tra i grandi piaceri della vita aveva quello di intrattenere i suoi ospiti con bevande ricercate e mescolate a base di vino, birra e orzo, addolcendole con il miele o con il succo di melograno. Fin da quella volta Zimri-Lim aveva imparato che l’ingrediente principale di qualunque cocktail è il ghiaccio, e in Siria non era la cosa più facile da procurarsi.
Ma l’inventiva di un uomo che si vuole ubriacare non conosce limiti.
Sfidando le estati mesopotamiche fece costruire una sorta di deposito sotterraneo sulle rive dell’Eufrate dove depositare il ghiaccio invernale e conservarlo durante l’estate. Grazie alle mai abbastanza celebrate tavolette cuneiformi sappiamo che il deposito era largo 6 metri e lungo 12, era dotato di canali di scarto capaci di far defluire l’acqua di scarto e soprattutto era dotato di un sistema di ricircolo dell’aria, che la manteneva a temperature minime. Zimri-Lin ne era entusiasta, tanto da vantarsi di essere stato il primo a realizzare una cosa simile.
Si sbagliava.
A partire dal IV° secolo in Iran ci avevano già pensato, costruendo gli Yakhchal, una sorta di piramide rotonda fatta con un materiale termoresistente, chiamato sarooj. In inverno dei minatori prendevano il ghiaccio sulle montagne e lo portavano dentro, poi cominciavano a produrlo. L’aria calda andava verso l’alto, e la punta dello Yakhchal era cava, così da permetterle di uscire e mantenere l’ambiente gelido.
Sottoterra venivano stoccati cibo e altro ghiaccio, poi veniva eretto un muro che andava da est verso ovest e aiutava, con l’ombra, a proteggere la piramide e a fare in modo che l’acqua proveniente da nord entrasse dentro fresca. E tutto questo per farsi dei cocktail con vino, birra e miele. Poi nel 1800 le cose diventarono stranamente più complicate, ma questa è un’altra storia.