Per catturare l’attenzione di storici e archeologi basta nominare due città: la prima è Alessandria e la sua biblioteca perduta, la seconda è Ebla. Deve la sua fortuna sia a un nome straordinariamente musicale ed evocativo – che tra l’altro ha ispirato il lavoro di E.S. Posthumus – sia al fatto che della sua esistenza non esistevano prove, solo voci.
Si parla di una delle città più antiche dell’umanità, sorta nel 2350 a.C. in Siria e considerata come il fulcro commerciale del Vicino Oriente. Essendo collocata giusta in mezzo tra Mesopotamia, Egitto e Anatolia, le sue strade vedevano un costante andirivieni di merci di ogni tipo provenienti dagli angoli più sperduti. Il lavoro non mancava sia dal punto di vista manufatturiero che da quello artistico.
Era troppo bello perché durasse, e infatti.
In un momento non meglio precisato della Storia, le altre città confinanti, invidiose delle ricchezze custodite tra quelle mura, la assaltarono per saccheggiarla e raderla al suolo. Sulle rovine e i cadaveri passarono la sabbia e il tempo, la memoria di quella città divenne leggenda, poi mito, poi i secoli la fecero dimenticare. Ma all’inizio del 1800 gli archeologi trovarono tracce di questa città, citata da altri documenti con un tono talmente epico che gli storici si divisero: per alcuni era solo una favola alla stregua di Troia.
Per altri, Ebla era lì fuori.
Ci spesero miliardi e anni senza ottenere uno straccio di prova, tanto che la comunità scientifica l’aveva quasi abbandonata; poi nel 1964 arrivò il team del professor Paolo Matthiae, dell’Università de La Sapienza. Scavando dalle parti di Tell Mardikh trovò il busto di una statua ben più antica delle altre che si trovavano nella zona. Sotto c’era un’iscrizione: “nell’anno ottavo da quando la dea Estar si manifestò a Ebla, Ibbit-Lim fece scolpire il suo nome e quello dei sui figli su questa statua”.
Ebla era lì sotto.
Corsero ad annunciare la scoperta alla comunità accademica, ma vennero derisi dai colleghi di tutto il mondo. Ebla non poteva essere lì, era impossibile perché i dati raccolti erano incompatibili con i libri di Storia dell’epoca. Per gli anni a seguire Matthiae e i suoi studenti dovettero lavorare senza aiuto né supporto, finché il numero di reperti che emergevano si fece da imponente a innegabile. Gli italiani avevano trovato la città perduta.