Persona umana e cattolici in politica senza condizionalità

Il libro Cattolici e politica rilegge Sturzo, Dossetti, La Pira, Lazzati e Moro. Lavoro e casa: i diritti della persona umana precedono esigenze di bilancio

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Persona umana e cattolici in politica senza condizionalità

Esattamente cinque anni fa, nell’estate 2015, con l’intervento Laicato cattolico: come uscire dall’afonia? che scrissi a quattro mani con l’amico Marco Sergio Narducci rispondevamo al direttore Marco Margrita del quotidiano online La Pietra nello Stagno a proposito della loquacità dell’allora segretario generale CEI Nunzio Galantino e «assordante silenzio dei laici cristiani impegnati in politica». A partire da quello spunto riflettevamo sull’atteggiamento che un cristiano dovrebbe avere oggi nei confronti dei partiti e più in generale dell’agire politico, in particolar modo in Italia, a partire dalla difesa della persona umana. Allora non solo si constatava il tramonto sia dello scenario della “Prima Repubblica” con la Democrazia Cristiana quale partito di maggioranza relativa, sia del “ruinismo” che ha caratterizzato la “Seconda Repubblica”, ma si conveniva anche sui limiti del protagonismo “galantiniano”; seppur di segno opposto, riproduceva la medesima logica di veti e scomuniche contro candidati e liste considerati incompatibili con il cattolicesimo, per una ragione o per l’altra. In uno scenario sempre più liquido e segnato dalla complessità, se Margrita invocava un «movimento popolare capace di opportuni entrismi», noi si proponeva preferibilmente un «humus che sia interparlamentare», in un’ottica di «nuove sintesi» coraggiose, integrali e radicali anziché riproporre «scialbi compromessi al ribasso» in cui  relegato lo stereotipo “moderato” del cristiano, o le contrapposizioni moralistiche selettive, testimoniali e superficiali su alcuni “temi etici”, che sia quello dell’aborto o dello ius soli.

Nell’ultimo lustro il disorientamento non si è certo risolto, ma anzi ha comportato ulteriori fratture tra un ampio settore dell’episcopato che – introiettando dall’alto l’ideologia “anti-populista” – è andato sempre più a braccetto con il rassicurante centrosinistra istituzionale e una minoranza disorganica di “nuovi cattolici del dissenso” turbata da tale cambio di schieramento, con il conseguente abbandono della retorica sui “valori non negoziabili” a favore di una nuova retorica sui “migranti”. Tra l’altro il centrosinistra ha un bacino elettorale urbano che meno ha patito la crisi economica, mentre le “periferie”, i disoccupati, i poveri ora tendono a rivolgersi alle destre, le quali si contendono – tra loro – quel “dissenso cattolico” con riferimenti identitari a devozioni, a simboli e a tradizioni religiose. Poi l’interventismo perentorio dei comunicati CEI di quest’anno riguardo le Messe (per riequilibrare le accuse di accondiscendenza verso il Governo Conte) e l’opposizione alla legge sulle discriminazioni sessuali ha dato voce nuovamente a toni rivendicativi e difensivi delle proprie prerogative che hanno alimentato ulteriori tensioni, spaccature e confusioni tra i cattolici italiani.

Cattolici e politica: Sturzo, Dossetti, La Pira, Lazzati, Moro

Fatta questa lunga parentesi, a distanza di cinque anni – e di un anno dal mio articolo La radicalità del cristiano (in Nipoti di Maritain, n.8, pp. 62-66) – sono tornato sul tema grazie a Rocco Gumina con il suo “Cattolici e politica. Temi, figure e percorsi del Novecento italiano” pubblicato a fine 2019 dalla casa editrice AVE, espressione dell’Azione Cattolica Italiana. La lettura è un po’ infastidita da frequenti virgole tra soggetto e predicato, ma riscontro sintonie con tale ricerca che fa emergere, sotto angolature non troppo frequentate, il contributo delle più rilevanti figure dell’impegno cattolico nella politica italiana del secolo scorso.

Luigi Sturzo

Sturzo e la libertà sostanziale nella laicità plurale

La prima è quella di don Luigi Sturzo, che Gumina – seguendo la rilettura del Lessico sturziano che intende scollargli di dosso l’etichetta semplificatoria di “destra liberale” – valorizza soprattutto per la «chiara formulazione della laicità e dell’aconfessionalità circa la partecipazione dei cattolici alla società attraverso aggregazioni partitiche», e per la moralità della politica in quanto «finalizzata alla ricerca del bene comune» (p. 18). Certamente la riflessione politica di Sturzo – nella sua duplice vocazione al presbiterio e alla politica – vede al centro la libertà, ma come egli stesso diceva: «Non è certo di una libertà forma ed esteriore che intendo parlare, ma di una libertà intima e sostanziale, che pervade tutto il corpo sociale» (cit. a p. 22). Insistere sulla libertà non solo della Chiesa, ma anche dello Stato (seppur mai assolutizzato), dell’intero corpo civile e della coscienza umana ha permesso al suo Partito Popolare di formare, in opposizione al Ventennio fascista, una classe dirigente d’eccellenza nei primi decenni di Repubblica Italiana. La politica come mezzo per realizzare un benessere terreno per meglio attuare il benessere spirituale delle anime, così come la intendeva Sturzo, non implica però un impegno del clero nei partiti o una indebita confusione tra politica e cattolicesimo. Anzi, valorizza la missione ispiratrice del laicato cattolico che sceglie il pluralismo partitico, le regole democratiche e l’unità nazionale – anziché una militanza in partiti confessionali che farebbero della religione una difesa di interessi di parte – per avvicinare e includere le masse popolari nello Stato liberale, che necessitava di una riforma affinché venissero riconosciuti i diritti naturali dell’uomo e dei corpi sociali all’interno di una relazionalità comunionale. La sua lezione, forse fin troppo scontata oggi, necessita pur sempre di essere collocata nel proprio contesto storico, come egli stesso era attento alle potenzialità della propria realtà storica, muovendosi tra l’ideale e il reale nel campo del possibile. A tutto ciò si lega anche la preoccupazione per il Mezzogiorno, a partire dall’urgenza della formazione del clero, ancora troppo legata a una gestione feudale.

Dossetti e il riformismo strutturale per promuovere la persona umana

Veniamo poi alla figura di Giuseppe Dossetti, che Gumina presenta in due capitoli rispettivamente dedicati alle radici ispiratrici e alla ricerca del bene comune nel decennio 1943-1952. I riferimenti di Dossetti sono esplicitati: dal domenicano Yves Congar deriva la prospettiva cosmica della “cristofinalizzazione” in cui anche i laici consacrano ogni realtà umana a Cristo; dal cardinale svizzero Charles Journet l’azione politica quale “epifania dell’Essere”, in costante tensione verso il Bene; da Jacques Maritain la promozione dell’uomo verso un umanesimo integrale – una “nuova cristianità”, non più sacrale ma profana – guidato dal fermento cristiano che vivifica spiritualmente il piano temporale. Di qui una teologia dell’indispensabilità dell’impulso proprio laicale all’interno dell’unico processo di «dilatazione della vita divina in sé e negli altri» (cit. a p. 51); il laico può operare o su mandato gerarchico in una azione cattolica unitaria di tipo formativo, oppure a titolo personale nella realizzazione pratica della giustizia sociale in un contesto ormai definitivamente plurale, in cui tra l’altro i cattolici sono una minoranza riformatrice consapevole della sproporzione tra l’appartenenza sovrannaturale e l’agire storico, indispensabile ma limitato. Dell’attività politica di Dossetti, l’Autore ripercorre in primis la sua esperienza spirituale di Resistenza al nazi-fascismo; nel confronto con i partigiani comunisti si è interrogato sulle modalità di intervento dei cattolici in politica, sino a giungere all’Assemblea del Costituente del 1946 nella cosiddetta corrente egemonica democristiana dei “professorini” che avanzava «un programma fortemente innovativo che legava la riforma dello Stato al rinnovamento economico-sociale del paese» (p. 66), in cui assumeva un ruolo preminente la giustizia sociale e la persona umana nella sua necessaria solidarietà sociale in una democrazia sostanziale. Qui il partito non ha il ruolo di portare avanti un’ideale di bandiera, bensì di avanzare un programma coraggiosamente riformista – in contrapposizione ai compromessi del politichese degasperiano di impianto anticomunista, liberale e conservatrice – per schierarsi esplicitamente con i poveri, gli oppressi e la classe operaia anziché avallare con compromessi e sottigliezze linguistiche un ordine economico sempre più ingiusto e peccaminoso. Si prese quindi per promuovere la Cassa del Mezzogiorno e la riforma agraria, anche per strappare il sostegno dei lavoratori alle forze social comuniste; tuttavia nel 1952, consapevole che la situazione di stallo non era più transitoria e che egli non aveva più margini realistici di incisività nelle decisioni di partito e di governo, abbandonò pure il coinvolgimento diretto nella Democrazia Cristiana per «tamponare al massimo la crisi» (p. 79), a favore del “secondo piano” di impegno culturale di studio e di ricerca.

La Pira e la prioritaria lotta alla disoccupazione e all’emergenza abitativa

Ci imbattiamo in Giorgio La Pira, anch’esso mosso da una visione cosmica cristocentrica e trinitaria, che aveva scelto di incarnare nella vicinanza – anche con un personale voto di povertà – ai più deboli, esclusi e sofferenti, e nella promozione della fraternità fra le nazioni. In particolare Gumina evidenzia la sua «intensa attività per la piena occupazione, per il piano case, per la pace nel Mediterraneo e nel mondo» con progetti concreti e realizzabili, a partire dai gemellaggi proposti dalla città di Firenze, della quale era sindaco. La mistica di La Pira si caratterizzava non per il paternalismo, ma per la partecipazione decisiva degli emarginati nelle decisioni fondamentali: «Nella scelta fra i ricchi ed i poveri; fra i potenti ed i deboli; fra gli oppressori e gli oppressi; fra i licenzianti e i licenziali; fra coloro che ridono e coloro che piangono; la nostra scelta non ha dubbi: siamo decisamente per i secondi» (cit. a p. 92), affermava. Proponendo «una mediazione fra teorie keynesiane e dottrina sociale della Chiesa in vista di una politica economica che prendesse sul serio il problema della crisi sociale» – spiega Gumina – «il governo era chiamato a perseguire il solo obiettivo di compiere una lotta organica contro la disoccupazione e la miseria rivolta all’ottenimento del pieno impiego» (p. 93). Per costruire una società cristiana occorre necessariamente assicurare a tutti i cittadini un lavoro e mediante esso il reddito necessario per una vita dignitosa, come scriveva La Pira nel 1950 nell’articolo L’attesa della povera gente sulla rivista dossettiana Cronache sociali. L’economia, la finanza, la cultura, la libertà, tutto l’edificio sociale deve essere fondato sulla piena occupazione per garantire il pane quotidiano a tutti; così la sua giunta comunale si prefiggeva di risolvere «i problemi della popolazione più umile di Firenze» – diritto al lavoro, diritto alla casa, diritto all’assistenza – facendo «il possibile e l’impossibile per adempiere a questo fondamentale comandamento umano e cristiano», secondo il sindaco. Affrontando la sfiducia dei cittadini verso una democrazia ritenuta inadatta a promuovere il progresso sociale e ad ascoltare le istanze popolari, La Pira affrontò le emergenze abitative e lavorative anche con il sostegno di Enrico Mattei, con il quale offrì una soluzione pubblica al rischio delle dismissioni della fabbrica del Pignone: «Bilancio o non bilancio […] qui c’è da salvare qualcosa di ben più saldo: la fiducia nella democrazia: fiducia affidata non solo e non tanto alle leggi elettorali, quanto alla reale capacità di risolvere i veri problemi degli uomini: lavoro e casa» (cit. a p. 95). Al contempo, La Pira vedeva nel Mediterraneo «un nuovo “lago di Tiberiade”» (p. 100) tra Atene, Gerusalemme e Roma da attraversare con una pace possibile ed escatologicamente attraente, animata da una visione spirituale e dall’analisi geopolitica in cui emergevano i paesi non allineati nello scontro della Guerra fredda. Insomma, quella di La Pira è per Gumina una narrazione del vangelo in politica spendendosi per i poveri e la pace guidata da una contemplazione «mistica cristiana degli occhi aperti», come la definiva il teologo Johann Baptist Metz.

Lazzati e la doppia cittadinanza umana e divina

A proposito del rettore dell’Università Cattolica Giuseppe Lazzati, l’Autore nota come egli si muovesse nell’orizzonte della costituzione conciliare Gaudium et Spes e della lettera patristica A Diogneto in cui si delineano i tratti della cittadinanza cristiana, con un paradossale “di più” di responsabilità spirituale dei credenti pur restando assolutamente uguali agli altri uomini che obbediscono alle leggi stabilite, con una duplice cittadinanza battesimale e civile. L’apostolato di Lazzati si configura come quello di un «laico fedele» in quanto profondamente impegnato nello studio accademico, con il rilancio dell’editrice Vita e Pensiero e la partecipazione ad associazioni per la formazione di una consapevolezza (pre)politica cristianamente ispirata, cioè indirizzata alla mediazione culturale e al dialogo. Uno dei capisaldi della sua visione sulla laicità è l’“unità dei distinti”, che permette di amare il mondo con lo stesso amore di Dio; così si concretizza la «vocazione alla santità attraverso l’opera per la costruzione della città dell’uomo» a partire dalla persona stessa che la abita, con le sue indissolubili relazioni (p. 116).

Aldo Moro

Moro e il ripensamento delle istituzioni politiche

Chiude questo “polittico politico” la figura di Aldo Moro, affrontata da Gumina sotto la lente del personalismo, del valore della giustizia e della prassi democratica in un «pensare politicamente allo Stato e alla società come soggetti dinamici da interpretare nello sviluppo incessante e complessivo della storia». All’interno dello Stato democratico ci si può impegnare per colmare le ingiustizie; il mezzo del partito invece permette di avvicinare le masse alla cosa pubblica e di superare lo scollamento tra i rappresentati e i rappresentanti; questa attenzione istituzionale non è mai fine a sé stessa, pure qui infatti emerge una «via media fra utopia e realtà» in un dinamismo sociale in evoluzione.

Quale riforma della politica?

La parte conclusiva del saggio di Gumina prende le mosse da alcune analisi del sociologo Franco Garelli sulla rilevanza politico-culturale dei cattolici – forse un po’ troppo roseo nell’asserire che «la vivacità del cattolicesimo italiano è sotto gli occhi di tutti» (p. 153), oppure ad esempio nel leggere l’adesione all’ora di religione cattolica come segno di vitalità piuttosto che di inerzia – per poi appuntare alcune proposte di una riforma della politica. Tuttavia – nonostante le nobili intenzioni e i riferimenti ai documenti magisteriali e del Convegno ecclesiale di Firenze 2015 – giustizia, democrazia inclusiva, cura, responsabilità, abitare la città, ecologia e “nuovo umanesimo”, rischiano di rivelarsi parole sempre più vuote, in assenza di un’incisività concreta; lo stesso si può dire dell’immagine di Luigi Bobba dei “ponti levatoi” che rappresenterebbero l’identità cristiana flessibile, adattiva, “resiliente” alle circostanze. Non è tanto questione di realizzare “tutto e subito”, quanto di incamminarsi in una radicalità coraggiosa che non riduca tali espressioni a una retorica decaffeinata, senza mutare quelle condizioni strutturali che tanto angosciavano i “professorini” democristiani. Più che una riforma della politica – seppur ispirata da Gaudium et spes – va preso atto che lo scenario rispetto a cinquant’anni fa è molto cambiato: il potere decisionale è solo marginalmente in mano ai cosiddetti “politici”. Se già Dossetti e La Pira già allora notavano il dramma di una democrazia debole, poco incisiva, incapace di affrontare le questioni degli ultimi e le ingiustizie economiche, oggi tale scenario tecnocratico – tra l’altro senza più sovranità monetaria nazionale né IRI in grado di coordinare la politica industriale italiana – è dato per molti come inevitabile, e talvolta lo si spaccia pure per “realismo”.

La tecnocrazia che umilia la persona umana

Eppure il vero realismo – attento agli assetti giuridici ma soprattutto ai rapporti di forza – dovrebbe condurci alla consapevolezza che alcune istituzioni come quelle intrinsecamente neoliberiste (e quindi anti-personaliste) dell’Euro e dell’Unione Europea, così come scaturite dai Trattati di Maastricht e di Lisbona, sono intrinsecamente inique e non mostrano significativi margini di riforma delle proprie logiche interne, ma esiste libertà al di fuori di esse. I diktat del debito pubblico, del pareggio di bilancio, dello spread e delle condizionalità dei prestiti economici ai paesi privi di sovranità monetaria sembrano inaggirabili; proprio qui servirebbe la profezia lapiriana in grado di offrire una soluzione strutturale, facendogli eco: «Bilancio o non bilancio!». Invece, tradendo questo grido dell’umano, i politici cosiddetti cattolici solitamente sono tra i più inclini a sostenere questa iniqua Unione Europea – che alimenta ingiustizie, in quanto il suo principale dogma è la libera concorrenza, soprattutto al proprio interno tra economie assai diverse – temendo come male peggiore il “ritorno dei nazionalismi” o ritenendola irreversibile (e in tal caso non si capisce perché andrebbe difesa, se davvero non si può tornare indietro). Una certa consapevolezza la dimostra il professore Pietro Andrea Cavaleri, che nella prefazione al libro di Gumina nota come

«le decisioni vere, quelle più importanti, quelle che incidono sul destino della gente, vengono prese da poche persone, da ristrette aristocrazie economico-finanziarie, da accorti e trasversali gruppi di potere, fuori dai riflettori, dietro le quinte delle istituzioni democratiche e non certo per l’affermazione del “bene comune”. Ecco perché la democrazia è in crisi! Ecco perché il diritto di votare è divenuto uno sterile esercizio quasi privo di significativi effetti»

P.A. Cavaleri, Prefazione a R. Gumina, Cattolici e politica, AVE, Roma 2019, p. 11.
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Uno Stato sovrano può spendere quanto occorre per la dignità della persona umana

Giustissimo, ma da ciò non deve necessariamente seguire che «una più rafforzata presenza dell’Unione Europea potrebbe rivestire un ruolo particolarmente incisivo e decisivo», anzi: se è vero che lo scenario è stato volutamente globalizzato, proprio lo Stato – incluse le amministrazioni locali – se dotato degli opportuni strumenti decisionali può invece costituire un freno ai meccanismi tecnocratici che generano squilibri e drammi sociali. Essi costringono, ad esempio, milioni di persone ad emigrare non liberamente per turismo, ma perché la propria terra è stata depredata, invasa, privatizzata proprio dalle stesse multinazionali che ipocritamente si ergono a tutela delle minoranze; il risultato è una guerra tra poveri, una concorrenza individualistica favorita dalle esigenze di profitto. Proprio per questo negli scorsi decenni sono state indebolite le sue “difese immunitarie” in vari modi, a partire dallo smantellamento del tessuto produttivo italiano; oggi, anche in un’ottica di sussidiarietà e di solidarietà sociale, riavvicinare il potere ai cittadini sembra realisticamente più praticabile con un ritorno alla sovranità nazionale (ovviamente non sciovinistica) che non “auspicare” la riforma di una sovranità sovrannazionale in un senso forse più inclusivo, ma difficilmente democratico nel senso sostanziale della parola: il Popolo al potere. Lo stile “populista” – che, favorito dai social, propone un contatto diretto tra il rappresentante e il rappresentato, ma anche tra il Papa e il singolo fedele, superando le mediazioni burocratiche/partitiche/curiali – è un sintomo di tale lontananza da colmare, tra l’altro con parlamenti sempre meno rappresentativi delle minoranze a causa di distorsioni maggioritarie e sbarramenti impensabili nella Prima Repubblica, dove per molto meno si parlava di “legge truffa”. Tutto ciò dovrebbe condurre a una riflessione più marcatamente (auto)critica sull’impegno di numerosi “cattolici sociali” e democristiani che – infine unendosi a ciò che rimaneva del PCI ormai organico all’alleanza militare NATO, proponendosi persino come esecutori testamentari di Aldo Moro – hanno imboccato questo vicolo cieco.

Aprirsi a visioni alternative per liberarci dalle inevitabilità irriformabili

Penso dunque che la lezione degli autori presentati da Gumina debba essere ripresa muovendosi tra il realismo dell’irriformabilità di certe istituzioni e l’utopia di una progettualità (o perlomeno di una “visione”) economica, politica e sociale radicalmente alternativa a tutto ciò che ci viene imposto come inevitabile, relativizzando nella tensione escatologica ogni costruzione umana destinata a tramontare. Uno sguardo cristianamente spalancato non può rassegnarsi: deve trovare vie praticabili per non restare intrappolato dalla contingenza, superandola con coraggio e sguardo fisso sulla dignità insopprimibile della persona umana, nella convinzione che tutto – proprio tutto, non ci sono condizionalità finanziarie che tengano – è subordinato ai suoi diritti fondamentali al lavoro, alla casa, al cibo e alla solidarietà sociale. Ci sono fondate ragioni per dubitare che senza una banca centrale subordinata al controllo popolare o perlomeno di un governo libero da condizionalità o qualsivoglia “vincolo esterno” ciò possa essere davvero perseguito. Probabilmente le ragioni della crisi del cattolicesimo politico andrebbero ricercate soprattutto qui.