Prima di arrivare alla tragedia che riunisce pompieri, carabinieri, infermieri e dieci immigrati in un appartamentino della periferia di Mestre, bisogna fare qualche passo indietro.
Paolo veniva dalla periferia, e fin da adolescente era uno di quei ragazzi sopra i 190 centimetri grazie ai quali non doveva impegnarsi per avere una donna. Dopo una scarsa carriera scolastica campava spacciando e scopando qualunque cosa avesse la vagina. A 24 anni aveva ingravidato una trentenne che lavorava alla cassa della piscina comunale; appresa la notizia s’era sbronzato a mostro, era salito sul suo SUV e a 120 all’ora aveva arrotato Pluto, uno splendido pastore belga che si era spappolato in parte dentro l’abitacolo, in parte dentro il motore, in parte qui e lì.
Pluto era al guinzaglio di Piervittorio, un quieto impiegato che lo stava portando al parco ed era sulle strisce. Paolo era sceso in stato confusionale con pezzi di Pluto addosso, Piervittorio gli era corso incontro assai alterato – Pluto era il suo unico amico – e Paolo aveva risposto alle critiche a cazzotti. Mancò la fortuna e anche il valore: Piervittorio cadde di testa sul marciapiede rimanendo paralizzato. Processato per lesioni gravissime preterintenzionali, avendo già alle spalle una robusta serie di precedenti per detenzione e spaccio, Paolo vide le porte del carcere di santa Maria Maggiore schiudersi nel 2009 e riaprirsi nel 2013.
Da allora rigò dritto riparando automobili, donando addirittura qualche soldo per il mantenimento del figlio che, comunque, non aveva mai voluto riconoscere.
La storia di Katia è più banale, ma non meno tragica.
Campagnola anch’essa, fin da piccola s’era impegnata a primeggiare a scuola. Stranamente colta per l’ambiente in cui si trovava, Katia era incapace di fraternizzare con le mutande addosso. Sprovvista di amiche, interessi, passioni o amanti presentabili, si era attaccata al primo babbeo di passaggio, tale Matteo. Non che fosse brutto; era un pittore disoccupato con la testa tra le nuvole e di vedute aperte, quindi indifferente all’elevato chilometraggio di lei. Tanto bastava.
La storia d’amore era durata un decennio buono; Matteo era addirittura rinsavito, si era messo a studiare ed era diventato pilota civile. Purtroppo Katia non aveva mai risolto la sua asocialità e fantasticava notte e giorno su una vita da film, non si capisce su quali basi. Appena compiuti trent’anni aveva mollato Matteo per inseguire una vita di libertà ed emozioni con una vena di follia. Così gli aveva detto.
Dopo un viaggio in solitaria in Vietnam aveva installato Tinder.
Le lenzuola di casa avevano visto passare sette camerieri, cinque culturisti, tre giocatori di rugby, due bagnini e un personal trainer, poi Katia s’era trovata a 31 anni sola, con la cellulite, un impiego parastatale (quello che permette alle discoteche filosinistrorse di spacciarsi per circoli di scacchi e non pagare le tasse) dove le colleghe le giravano al largo per timore gli scopasse i mariti.
Realizzato che una vita di libertà ed emozioni con una vena di follia era solo la crisi dei 30 anni con un buon marketing, Katia aveva tentato di ripristinare i contatti con Matteo, ma lui ormai s’era messo con una hostess ventitroienne che gli aveva già dato una bambina. Katia dunque passava le serate a scorrere Tinder domandando dove fossero gli uomini “con la U maiuscola” disposti a prendersi un impegno, dato che lei amava viaggiare, il buon vino e la buona cucina.
Tradotto, passava le giornate su Facebook tra una foto a tre quarti dall’alto e una piadina al guacamole.
Qui aveva conosciuto Paolo.
Il problema di unire due persone adulte è che sono già formate. A vent’anni sei pongo, a trenta sei legno, a quaranta sei pietra; ognuno ha abitudini e difetti troppo radicati perché si possano piallare, e davanti a quelli altrui è intransigente quanto impaziente. Paolo ha 50 anni e ora che il prodotto delle sue gonadi è adolescente, ci si interessa. Vuole conoscerlo, finanziarlo, scoprirlo. Katia ne ha 35 e cova ancora dentro di sé quel sogno di libertà ed emozioni con una vena di follia.
Servono soldi, insomma, e il colpo di scena arriva quando la madre di Paolo trapassa, lasciando in eredità al figlio 40mq di appartamentino al quarto piano in periferia di Mestre. L’idea di Katia sarebbe di venderlo e usare i proventi per finanziarsi un’estate di libertà eccetera. Paolo, invece, consapevole che nella vita non puoi mai sapere quando testa e polmoni di un pastore belga ti entreranno nel cruscotto, è più lungimirante: perché non affittarlo? Si guadagna meno, ma più a lungo – e si tiene a freno quella bizzarra idrovora di soldi che è una donna di trent’anni.
Katia si oppone: quanto si può sperare di avere d’affitto, da un porcile del genere? Tralasciando le rotture di scatole di tasse e burocrazia, anche evitando di spendere per lavori di restauro e manutenzione, nessuno pagherebbe più di 300 euro per un posto simile.
«Nessun italiano» corregge Paolo.
Il primo anno era andato benissimo.
Clandestini che lavoravano dalle dodici alle quindici ore al giorno non si facevano problemi a dormire su letti a castello anche tre alla volta, e l’appartamento fruttava 2000 euro netti al mese che Katia investiva in shopping online e vacanze in resort di lusso. Poi arrivò il lockdown. Dieci uomini di nazionalità diverse che non si lavano, sono chiusi in 40 metri quadri e non possono né guadagnare né sfogarsi creano due problemi: il primo è che non possono più pagare l’affitto, il secondo è che le risse sono all’ordine del giorno.
Katia e Paolo si trovano a non poter pagare più le rate di pressoché qualsiasi cosa mentre gli inquilini del palazzo, non potendone più di scazzottate e urla, avevano chiamato i Carabinieri. Quando i clandestini avevano visto le divise avevano realizzato di essere circondati da droga, condizioni igieniche spaventose e alcun permesso di soggiorno, così avevano telefonato a Paolo per capire il da farsi.
Paolo, in preda al panico, aveva chiesto suggerimento a Katia.
Lei, scaltra come un cervo, aveva suggerito agli immigrati di barricarsi dentro e aprire il gas minacciando di far saltare la palazzina se non se ne andavano, augurandosi gli uomini fossero abbastanza idioti da farlo, così da far saltare in aria loro stessi e le prove. Purtroppo i Carabinieri avevano un giovane tenente assai pragmatico, che disse “sì, sì, ora ce ne andiamo” mentre i pompieri tagliavano la fornitura di gas al piano; avevano poi aperto la porta con la chiave bulgara, distribuito alabarde spaziali e pugni atomici, requisito tutto e tradotto gli uomini in galera.
Katia e Paolo, travolti da querele, processi e parcelle di avvocati, si stupirono dell’ironia della vita che finalmente aveva procurato la libertà, le emozioni e la follia che sognavano, ma in un ironico prolungamento del lockdown chiamato arresti domiciliari.