COVID: tra negazionisti e allarmisti, un’alternativa non paranoica
I negazionisti del COVID fanno il gioco degli allarmisti che vorrebbero far credere che siamo ancora in piena emergenza. Cerchiamo un’alternativa assennata
I “negazionisti del COVID” fanno il gioco degli “allarmisti” che vorrebbero farci credere che siamo ancora in piena emergenza e scommettono in una seconda ondata più forte della prima. Noto un certo compiacimento, come se qualcuno sperasse in una sorta di contrappasso per dimostrare di aver avuto ragione.
Il COVID c’è ma non siamo in emergenza
Eppure la realtà è questa: in Italia – ogni paese ha andamenti diversi – i dati sono molto buoni, perché siamo ai minimi da febbraio per quanto riguarda il numero di ricoveri (705), di terapie intensive (una quarantina ad oggi, 2 agosto 2020) e di morti giornalieri (5, a fronte di 2000 morti per altre malattie, di cui 35 infettive come l’epatite virale e una decina di suicidi), probabilmente per contagi di molte settimane addietro. Il lieve aumento dei “positivi” riguarda prevalentemente casi asintomatici, spesso importati (più da rientri vacanzieri che non da barconi della speranza) scoperti anche grazie a un impiego di test più esteso, ma non delinea – mi spiace per i catastrofisti che se la prendono contro i migranti o contro i ragazzi della movida – uno scenario allarmante da “seconda ondata”, verificatasi invece in altri paesi. In Italia sembra che sia diventato “endemico”, come altri virus che circolano su numeri stabili nel tempo e in qualche modo “sotto controllo”. Questo non ci rende negazionisti, ma semplicemente attenti.
Precauzioni e superstizioni
Però restano alcune anomalie tutte italiane, come l’utilizzo a scopo diagnostico dei test sierologici (anziché dei tamponi che segnalano la presenza del virus oggi, e non la settimana precedente) e il criterio del “doppio tampone negativo” per dichiarare guarito un asintomatico, mentre l’OMS e i principali studi scientifici ora sono concordi nel suggerire l’isolamento precauzionale per non più di 10 giorni (solo in rari casi particolarmente gravi e immunodepressi si può estendere a un massimo 20 giorni) dall’insorgenza dei primi sintomi e in assenza di febbre da almeno un giorno; per chi rimanesse asintomatico, 10 giorni dal tampone positivo sono sufficienti. La probabilità di essere contagiosi è pressoché nulla dopo 10 giorni dal proprio contagio. Non si capisce come mai – se non per accrescere i numeri per “governare con la paura” – in Italia si continuino ancora a considerare tra i malati costretti all’isolamento le persone a lungo asintomatiche (in alcuni casi pure da mesi), di certo non contagiose ma anzi clinicamente sane e probabilmente immuni. Una pagina facebook (con oltre 50.000 seguaci) che spiega molto dettagliatamente tutte queste cose è Pillole di ottimismo, coordinata dal dottor Guido Silvestri, con i quotidiani aggiornamenti del dott. Paolo Spada; il loro “ottimismo” non è un “va tutto bene” ma la certezza che abbiamo le conoscenze sufficienti per fronteggiare in modo assennato una situazione incerta.
L’uomo sano di Savona, riportato in quarantena con la moglie guarita
Penso al recente caso di un uomo di Savona con i tre figli, prelevati dai Carabinieri da uno stabilimento balneare e riportati a casa; la moglie venti giorni prima ebbe i sintomi del COVID e dopo essere risultata positiva al tampone è andata a vivere in una mansarda. Lui e i figli ancora tre giorni fa hanno avuto un tampone negativo, eppure avrebbero dovuto continuare l’isolamento fiduciario, secondo le norme vigenti. Questo criterio scriteriato del doppio tampone negativo genera insofferenza, pericoloso nascondimento dei probabili contagiati che evitano di sottoporsi ai test nel timore di interminabili isolamenti e inutile allarmismo, come in tale caso, in cui ci si accanisce contro una persona sanissima. Certamente legalmente responsabile per aver violato una disposizione, ma che è irragionevolmente antiscientifica.
L’arbitrarietà di uno stato di emergenza prolungato
Questa – diversamente dalle doverose mascherine per contatti prolungati in luoghi chiusi e affollati – non è prevenzione o precauzione assennata, ma allarmismo per titoli di giornali funzionali a un prolungamento dello “stato di emergenza”. Che non è il lockdown, ma garantisce pur sempre al governo l’arbitrarietà di sospendere le libertà democratiche, anche in assenza di un momento emergenziale. Persino giuristi che da sempre sostengono il rafforzamento dei poteri di governo a scapito della centralità parlamentare, come Sabino Cassese, si sono detti preoccupati per questa proroga oltre lo stretto necessario; illuminanti anche in questo caso le parole del presidente emerito della Corte costituzionale Cesare Mirabelli, che già si era segnalato per posizioni ragionevoli sulla legge contro le discriminazioni di genere e orientamento sessuale. Tra l’altro andare a votare a settembre in uno stato giuridico di emergenza è problematico non dal punto di vista sanitario, ma da quello delle libertà costituzionali. La seconda ondata di COVID in Italia è prevedibile tanto quanto il crollo di un altro viadotto autostradale o un’altra alluvione a Genova in autunno: non impossibile, ma con alcune precauzioni è possibile assumersi un “rischio controllato” per prevenire il collasso degli ospedali e una crescita dei numeri dei morti, ma soprattutto il collasso economico e psicologico degli italiani.
La comoda paranoia dei negazionisti e quella degli allarmisti
Quest’ultimo – in attesa anche di dati sui suicidi indotti da tale situazione, circa uno al giorno secondo la fondazione BRF – già sembra piuttosto compromesso: negazionisti e allarmisti sono gli opposti esiti della medesima paranoia che, in tale polarizzazione, porta a squalificare semplicisticamente chi non si piega alla propria retorica come un pazzo. È una comoda gabbia rassicurante dividere il mondo a metà, e collocarsi certamente dalla parte che più ci è comoda, anziché sforzarsi a entrare nella complessità. Lì infatti non esistono slogan, ma c’è un confronto tra teorie differenti basate sui dati; alcune però sono molto più plausibili di altri e le scienze come quella medica si basano proprio su tale probabilità, quantificabile se si seguono criteri metodologici condivisi a partire dai dati osservati e alle varie ipotesi sulle quali si orienta il consenso scientifico.
Per una divulgazione scientifica completa, schietta e onesta
Un mese fa Nature ha pubblicato un interessante manifesto, a firma anche degli italiani Andrea Santelli e Tommaso Portaluri, sull’utilizzo trasparente e umile dei modelli previsionali, soprattutto in un contesto pandemico in rapido cambiamento: occorre valutare attentamente le ipotesi iniziali, evitare arroganti generalizzazioni al di là di quanto mostrino i modelli, non dimenticare la prospettiva degli autori, le incognite e le conseguenze di previsioni troppo precise e quindi scientificamente inaffidabili. Ridimensionare la pretenziosità di certi modelli – come quelli che stabiliscono già le cifre precise della seconda ondata autunnale – responsabilizza anche i decisori politici, chiamati pur sempre ad agire in un contesto di incertezza, anziché scaricare tutto sul modello di riferimento preso come indiscutibile. A tal fine, dicono gli autori, è necessaria una «divulgazione completa e schietta», riconoscendo «apertamente e onestamente» che certi interrogativi non possono avere una risposta definitiva dai modelli: entrano in gioco scelte politiche.
Il segreto è un favore ai negazionisti
Di certo secretare i rapporti del comitato tecnico-scientifico – anziché esporli alla pubblica spiegazione e alla discussione democratica – non fa che alimentare le paranoie dei cosiddetti complottisti e negazionisti. Non si offre un buon servizio né alla scienza né alla politica, quando alla verità si preferisce il principio dell’autorità. È verissimo che la libertà implica la responsabilità, ma è altrettanto vero che, finché si è vittime di paure e superstizioni, la libertà non riesce a sorgere.
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