Libia, l’Italia in mezzo al guado

Pubblicato il 31 Marzo 2011 alle 21:54 Autore: Francesca Petrini
libia

La difficile posizione dell’Italia sul piano internazionale (e interno) sul caso Libia

Da giorni ormai è iniziata quella che alcuni chiamano “guerra in Libia” e che altri preferiscono definire “intervento umanitario”. Sebbene siano poche le certezze a riguardo, alcune considerazioni possono già farsi, sia secondo una prospettiva internazionale che di politica interna.

[ad]Dal punto di vista del diritto internazionale, la missione in Libia sembra trascendere la prassi delle operazioni autorizzate dall’Onu sotto il Capitolo VII per almeno due motivi. Anzitutto perché la risoluzione Onu 1973, che autorizza l’uso della forza (ed in particolare la no-fly zone), non ha attribuito la leadership militare a uno Stato membro dell’organizzazione, come non è mai accaduto nelle principali crisi degli ultimi vent’anni. In secondo luogo, perché l’ipotetica soluzione di una responsabilità di “comando e controllo” della NATO affiancata da una autorità separata che include nazioni arabe e paesi non facenti parte della NATO, è “senza precedenti”, come ha sostenuto il Segretario alla Difesa americano Robert Gates.

Inoltre, sul piano internazionale, l’intervento occidentale in Libia aggiunge un elemento di incertezza sul futuro della crisi libica e sugli stessi scenari della rivolta araba nel suo complesso. Se è possibile evidenziare alcuni fattori strutturali che hanno portato alla rivolta – quali il mutamento dei vincoli strategici, l’esplosione delle opportunità d’informazione e interazione, la recessione economica che ha esasperato la crisi di legittimità dei regimi autoritari, ecc – l’intervento esterno da parte dell’Occidente in quella che è stata definita la “primavera araba” potrebbe comportare conseguenze tra loro contrastanti: alimentare o inibire la rivolta. In tal senso, l’opportunità dell’operazione “Odissea all’alba” divide profondamente gli analisti: da un lato, la dinamica del “contagio” è valutata come sufficiente nel lungo periodo a influenzare positivamente gli sviluppi dei regimi non democratici, e quindi si reputa controproducente l’intervento armato; dall’altro, l’intervento esterno è considerato inevitabile nell’“emergenza democratica” del mondo arabo. In sostanza, si tratta di valutare quanto l’intervento della comunità internazionale sia percepito come atto impositivo di un cambio di regime volto a proteggere la popolazione, a dare speranza di successo regionale a tutta la rivolta araba e a smentire i predicatori del “conflitto di civiltà”; e quanto, all’opposto, possa essere vissuto come ennesima invasione da parte di un Occidente neo-coloniale, in definitiva più interessato al petrolio che al successo della rivolta, e pertanto già preso dall’idea di uno smembramento della Libia, che ne permetterebbe un più facile controllo territoriale, divisa in Cirenaica e Tripolitania.

(per continuare la lettura cliccare su “2”)

Per commentare su questo argomento clicca qui!

L'autore: Francesca Petrini

Dottoranda in Teoria dello Stato e istituzioni politiche comparte, si è laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali ed ha conseguito il titolo di Master di II livello in Istituzioni parlamentari per consulenti d´Assemblea.
Tutti gli articoli di Francesca Petrini →