Di lo Scorfano:
Poi, quasi come se fosse di improvviso, torniamo a casa un sabato all’ora di pranzo, come tutti i sabati all’ora di pranzo, dopo aver lavorato in questo strano tipo di mattina in cui a molti sembra ancora curioso pensare che si lavori, e ci fermiamo bloccati davanti alla televisione, appena accesa. Cerchiamo di capire.
Le notizie scorrono rapide sotto il volto nervoso di una giornalista che cerca di spiegare qualcosa che riguarda una scuola (come quella in cui abbiamo passato tutta la mattina, anche questo sabato mattina), qualcosa che è accaduto mentre noi (quelli che insegniamo nelle scuola italiane insieme a quelli che nelle scuole italiane studiano), mentre noi eravamo a insegnare, nella nostra scuola, insieme ad altri ragazzi, più o meno sorridenti, più o meno felici che fosse arrivato il giorno che precede la domenica. Il giorno più brutto per morire.
Ci fermiamo e ci mettiamo un po’ a capire. Stentiamo a decifrare, a ricostruire il puzzle di immagini e di voci e di scritte in sovraimpressione. Ma in realtà è che forse non vogliamo proprio capire.
E poi capiamo, siamo costretti: la bomba, una ragazza morta, una ragazzina che andava a scuola, un’altra in fin di vita che qualcuno aveva dato già per morta, mentre noi, insegnanti e studenti, stavamo vivendo la nostra solita mattina, nella solita aula, nella solita scuola di tutti i soliti giorni. Ed è per questo che noi, proprio noi, arriviamo per ultimi a sapere di quello che è accaduto, stamattina. E poi ci facciamo forza e apriamo i siti web, quelli delle informazioni. E leggiamo attoniti i particolari che piano piano emergono, e le ipotesi, e le dichiarazioni.
E poi, ancora, vediamo la faccia, la ragazza che è morta. Le sue foto prese dal suo profilo facebook e improvvisamente finite sul sito di Repubblica, del Corriere, della Stampa, dappertutto: improvvisamente nota, lei, il suo nome, la sua faccia. Forse vorremmo dire qualcosa anche su questo, intervenire, cercare di capire se sia il caso o non sia il caso, confrontarci. Ma no, non è il momento, non questo.
Non è il momento di giudicare nessuno: arriveranno senz’altro anche i momenti del giudizio (e dei processi e di cosa sia meglio o peggio fare in questi casi, che si sia politici o insegnanti o giornalisti). Adesso è il momento, per noi che siamo persone che entrano ed escono tutti i giorni dalle scuole, di riconoscere nel volto di quella ragazza il nostro volto. La faccia delle decine, centinaia di ragazze che noi vediamo tutti i giorni entrare e uscire dalle nostre aule, che salutiamo, che interroghiamo, a cui consigliamo libri e letture, che guardiamo crescere e andare via, chissà dove, alla ricerca di un posto nel mondo, mentre noi, in silenzio, gli auguriamo di trovarlo, quel posto nel mondo, e che sia comodo, che sia qualcosa, che sia un piccolo pezzo di felicità, speriamo. Ma a lei non più, nessuno.
E allora è forse riconoscendola così, semplicemente come una di noi, che le possiamo adesso rendere l’omaggio più discreto e commosso. L’unico che vogliamo e che pensiamo di potere.
Non giudichiamo nessuno, non ora. Non avanziamo ipotesi, non siamo in grado, non sappiamo, non abbiamo gli elementi, non vogliamo nemmeno averli, non lo facciamo, lo faremo domani, dopodomani. Perché oggi ci importa soltanto di riconoscere lei e di sapere che era una di noi, ogni mattina, anche questa mattina, prima che. Come tutti i nostri alunni, tutte le mattine di tutti i nostri giorni di scuola. Al resto penseremo dopo. Quando, chissà quando, ci sarà passata la commozione di esserci riconosciuti, noi, il nostro quotidiano, la nostra normalità, la nostra routine delle mattine dei sabati di tutto l’anno, in una tragedia come quella di questo, così brutto per morire a 16 anni, sabato mattina.
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