L’Attimo fuggente avrebbe bisogno di un disclaimer.
Contestualizzare le opere andrebbe fatto anche quando non sono politicamente scorrette. Vediamo perché.
Robin Williams era nato per interpretare quel ruolo. Dal sorriso malinconico alla fisicità sedentaria, era il perfetto alieno all’interno di una scenografia solenne, arcigna e imponente. A livello di scrittura il film ha colpi di genio che ancora oggi non invecchiano; l’entrata in scena del professore che fischietta l’overture (la celebrazione della sconfitta di Napoleone in Russia), passando in mezzo alla classe e uscendo, seguito dagli studenti, racconta già il personaggio e quello che sarà il suo arco narrativo.
L’Attimo fuggente è un grande teen drama. Ha emozionato plotoni di adolescenti anni ’90, convincendoli che la strada giusta da seguire fosse quella dell’individualismo, del piacere, dell’idealismo e del romanticismo. Stringi stringi, è Nikolaj Rostov di Guerra e pace.
Senza il finale, però.
Perché anche se in buona fede, L’Attimo fuggente inganna lo spettatore.
Diamo un’occhiata allo specchietto retrovisore.
Negli anni ’90 mondanità e la felicità erano obbligatori, codificati e definiti. Slim Aaron aveva raccontato la “vita inimitabile” dell’alta borghesia post anni di piombo, e ora tutti facevano rate o debiti per averla, provarla o emularla. Era un mondo senza social in cui si invitavano amici e vicini di casa per mostrare video e foto delle vacanze, anche per dimostrare di avere molti televisori in casa e di essere stati a Cortina nell’albergo giusto (Cristallo o Savoia?), in Costa Smeralda nel posto giusto (Porto Rotondo o Porto Cervo?).
Era un mondo strettissimo, dove anche la ribellione era standardizzata.
Ma gli adolescenti son sempre uguali: vogliono scardinare e distruggere quanto costruito dai genitori, salvo poi replicarlo – di solito in peggio. I college del primo ‘900 avevano prodotto la classe dirigente che aveva prodotto figli debosciati ben raccontati da Il talento di Mr. Ripley, i famosi preppy che erano finiti quasi tutti in galera per bancarotta fraudolenta, inside trading o schemi Ponzi.
L’Attimo fuggente racconta i loro figli, futuri sessantottini che si ribellano a “tradizione, onore, disciplina, eccellenza” per poi trasformare le città in zone di guerra gambizzando, uccidendo e sequestrando, salvo poi realizzare che non era il modo migliore per guadagnare consensi o creare un mondo migliore. Torniamo a quando uscì il film, cioè il 1989.
La fortuna del film è uscire proprio al cambiare della marea.
Gli anni ’80 erano un’esplosione di eccessi fatta per contrapporsi al grigio degli anni di piombo, e il film arriva proprio quando questo benessere a ogni costo sta tirando gli ultimi. Dice ai ragazzini che non devono seguire la massa o il posto fisso, non devono inseguire status symbol e l’azienda di famiglia, bensì essere individualisti, innamorarsi e drogarsi di vino e poesia. Bello. Se non fosse che
Se togli l’estetica, crolla tutto.
È lo stesso trucco di Harry Potter. Quando guardi il film ti sembra di sentire l’odore di legno, stanze chiuse, libri ammuffiti e lucido da scarpe. È facile ribellarsi quando sei circondato da bellezza, storia e tradizioni: basta fare un rutto. È facile sentirsi ribelli – e vincenti – se hai 16 anni e stai in mezzo a tuoi coetanei vestiti uguali in un ambiente che c’ha sulle spalle 300 anni di tradizioni: basta allentare il nodo della cravatta.
È l’estetica a creare l’antagonista, non i professori o gli insegnamenti.
Quello che L’Attimo fuggente o Harry Potter sottintendono in ogni singola scenografia è il peso della responsabilità e delle aspettative dei nostri predecessori e dei nostri genitori. Per esempio: uno studio di Interior designer ha provato a ricostruire gli interni di Harry Potter in chiave moderna.
Crolla tutto, perché mancano gli anni di Storia, le tradizioni, le aspettative. Mancano gli oggetti di famiglia, i mobili della bisnonna, i quadri del nonno, i resti dell’appartamento da scapolo di papà, i ricordi dell’università della mamma. Alla fine, il senso di appartenenza.
Non c’è nessuno, lì dentro.
È una casa di automi.
Ma oltre a essere una scelta di regia grandiosa – mostra, non dice – il messaggio finale tende a mettere gli studenti esattamente sulla strada che vorrebbero evitare: l’omologazione. E basta fare un ragionamento semplice, per vederlo.
Ovvero che liberarsi da regole e storia è semplice quando ne sei circondato. Quando ne sei completamente libero, andrai a cercare altre forme di ribellione, andrai alla ricerca di regole ovunque si trovino, perché a un adolescente interessa avere delle battaglie, più che vincerle. Il problema è che se lo fanno tutti, ti trovi in un mondo privo di regole o “valori” da abbattere, e questo porta all’apatia. La mancanza di stimoli, sfide o nemici rende un essere umano debole, ipersensibile e in ultimo, manipolabile.
Una generazione di anarchici, ignoranti e atarassici, che non sanno da dove vengono né dove vanno, che non sanno combattere perché non hanno mai avuto vere regole da spezzare, che passano le giornate a parlare di nulla e a intrattenersi col nulla, subirà qualunque sopruso senza avere la più pallida idea di come ribellarsi o a cosa aspirare, e si accontenterà di un premio di consolazione.
Perciò non so bene perché, ma ogni volta che vedo la scena dei ragazzi che salgono sui banchi, mi viene in mente la scena delle ostrichette di Alice nel paese delle meraviglie, fatto dalla generazione del 1951.