Nel 1325 a.C. Ankhesenamon era la regina d’Egitto, terza figlia di Nefertiti. A 13 anni era stata data in sposa al fratellastro Tutankhamon. Erano anni in cui le dinastie erano blindate, e sovente figlie, fratelli e genitori si sposavano tra loro. L’unico modo per fare il salto nella stirpe reale era tramite matrimonio, e i candidati venivano scelti con cura. Del resto, per la parte divertente del matrimonio, si avevano a disposizione uno stuolo di servitori e schiave.
Quando il marito di Ankhesanamon la lasciò vedova, la poveretta si trovò circondata di amanti che si potevano agilmente far sparire, ma nessuno era presentabile come marito. Così, dimostrando pragmatismo e capacità di pensare fuori dagli schemi, scelse su carta il miglior pretendente al mondo e prese carta e penna.
Suppiluliuma, dopo aver assassinato il fratello, era salito al trono degli Ittiti ed era diventato uno dei più grandi monarchi. Guerrafondaio e stratega, stava ampliando i confini del suo regno e progettava di trasformarlo in impero, quando nel bel mezzo della seconda guerra siriana gli arrivò in mano la lettera della regina d’Egitto, il regno più potente e minaccioso del mondo.
Ankhesenamon fu laconica e diretta: «Non ho figli, ma dicono tu ne abbia parecchi. Se me ne mandi uno, diverrà mio sposo. Non sceglierei mai uno dei miei servitori come marito». Non esiste modo di fare un paragone coi tempi moderni: Suppiloliuma è esterrefatto, e anche i suoi consiglieri. Se la proposta è vera, si tratterebbe di unire i due regni più potenti del mondo in un legame indissolubile, ma è assurdo.
Possibile la regina d’Egitto non solo non trovi marito, ma lo vada a cercare tra i peggiori nemici?
Ci sono due rischi: il primo è che la lettera sia un falso creato dai suoi nemici per mandare il figlio in Egitto e offendere la regina. Il secondo è che la lettera sia vera, ma sia una trappola dell’egiziana per avere in ostaggio un figlio del sovrano e approfittare del momento di difficoltà per indebolirlo. Suppiluliuma si scervella per giorni, poi manda degli emissari affinché si assicurino la lettera sia vera.
Come ogni donna del mondo, Ankhesenamon si inalbera parecchio quando un uomo non si presenta sull’attenti alla chiamata, e manda una seconda lettera: «Se avessi avuto un figlio, pensi che avrei parlato con disonore mio e del mio paese a un regno straniero? Voi non mi credete e vi rivolgete a me con tono dubbioso! Mio marito è morto, non ho figli e non prenderò mai un mio servitore come sposo. Non ho scritto ad altri paesi stranieri, soltanto a voi. Mandami uno dei tuoi figli e diventerà re d’Egitto!»
È bello vedere come quel tono piccato e perentorio sia parte dell’universo femminile fin dall’antichità.
Suppiluliuma capisce che quella lettera sa di ultimatum. Ci pensa bene, poi sceglie il suo quarto figlio, Zannanza – il più bello – e lo invia a Tebe con una scorta alternando terrore a sogni di gloria. Dopo qualche settimana, un messaggero arriva ferito e trafelato: Zannanza è stato assassinato in un’imboscata appena messo piede in territorio egiziano. Il sovrano si dispera, ma le lacrime durano poco.
Chiede spiegazioni alla regina, ma al posto suo risponde il nuovo faraone: si tratta dell’anziano visir, Ay. Ank non aveva più ricevuto risposta e si era rassegnata a sposare l’unica alternativa. Il faraone si dice dispiaciuto ma innocente, Suppililiuma non crede a una sola parola e muove guerra all’Egitto, giurando di fare un massacro per vendicare l’offesa e l’imbroglio.
Mantiene la parola.
Fa un’offensiva furibonda nei territori egiziani in Siria, fa migliaia di prigionieri e li deporta nel suo regno. Purtroppo molti di loro hanno la peste, e scatenano un’epidemia che alla fine ucciderà addirittura Suppiluliuma. Se la Storia ha una morale, è che se una donna chiama non è il caso di farglielo ripetere.