Abbiamo già parlato più di una volta di mobbing a lavoro, in considerazione del fatto che si tratta di un fenomeno piuttosto diffuso, e su cui si è già formata una giurisprudenza abbastanza corposa, a riprova dei numerosi episodi rientranti nell’ambito delle condotte persecutorie in ufficio. Ci siamo occupati sia di mobbing orizzontale, sia di mobbing verticale, evidenziando i rispettivi tratti caratteristici e facendo luce su alcune interessanti indicazioni emerse proprio dai provvedimenti dei giudici in materia. Qui di seguito, invece, vogliamo vedere più da vicino quelli che sono gli aspetti risarcitori in caso di mobbing, ovvero quali sono gli strumenti che il privato lavoratore può azionare per tutelarsi contro condotte di questo tipo. Facciamo chiarezza.
Il mobbing: che cos’è in breve
Prima di considerare gli accennati aspetti risarcitori del mobbing, vogliamo richiamare il concetto in esame, dandone una sintetica definizione: con il mobbing abbiamo un insieme di comportamenti violenti riconducibili ai superiori e/o colleghi nei confronti di un lavoratore. Tali comportamenti debbono ricorrere più volte nel tempo, ovvero non debbono avere carattere episodico o sporadico, e soprattutto debbono essere diretti a ledere la dignità personale e professionale e la salute psicofisica del lavoratore.
Il termine “mobbing” è di chiara derivazione anglosassone, derivando dall’inglese “to mob”, e venne usato per la prima volta negli anni ’70 dall’etologo Lorenz per descrivere un tipico comportamento di diverse specie di animali che circondano in gruppo un loro simile e lo assalgono con veemenza per escluderlo dal branco.
In ambito lavorativo, il mobbing si attua in molteplici espressioni: minacce verbali, violenze fisiche, offese di vario tipo, gesti volgari, trasferimenti illegittimi ecc. Si tratta insomma di atti persecutori plurimi e ripetuti nel corso del tempo, tali da provocare nella vittima una situazione di stress ed angoscia, se non veri e propri danni fisici, laddove dalle offese in forma orale si sia passati a vere e proprie aggressioni fisiche.
Scopo del mobbing è spingere la persona che ne è vittima ad abbandonare spontaneamente il luogo di lavoro, attraverso le dimissioni, e senza ricorrere quindi al licenziamento. Come anche rimarcato dalla giurisprudenza, per aversi mobbing punibile, è necessario che le condotte lesive perdurino per almeno sei mesi.
Quale tutela risarcitoria?
Bisogna sottolineare un aspetto rilevante in tema di tutela risarcitoria: riguardo al fenomeno diffuso del mobbing, al momento manca una vera e propria normativa ad hoc. Pertanto, la tutela è stata assicurata dalla giurisprudenza, ovvero dalla sentenze dei giudici – in particolare quelli della Corte di Cassazione – che hanno inquadrato il fenomeno e lo hanno punito. La tutela in questione può essere sia di carattere civile, sia di carattere penale, come vedremo subito.
In ambito civilistico, gli atti che integrano il mobbing ovvero la persecuzione continuata sono rilevanti in quanto capaci di produrre un danno valutabile ai fini del risarcimento. Il danno è tipicamente psicologico e morale, comportando uno stato di angoscia, ansia e difficoltà a recarsi e stare sul posto di lavoro. La tutela civilistica in oggetto prescinde dall’eventuale accertamento di un reato connesso al mobbing, ovvero al lavoratore è sufficiente provare la sussistenza degli atti persecutori ripetuti nel tempo e il collegamento tra essi e il suo stato di disagio, per vedersi riconosciuto un risarcimento danni, ovvero una somma di denaro in riparazione per quanto successo. Inoltre, laddove si tratti di mobbing attuato con demansionamento o immotivato trasferimento del dipendente, sarà riconosciuto al lavoratore il diritto al reintegro nella precedente posizione. Ovviamente di ciò dovrà essere data adeguata prova da parte del lavoratore.
Dal punto di vista penalistico, invece, va detto che la persona colpita da mobbing potrà non soltanto rivolgersi alla giustizia civile, ma al contempo può anche denunciare i comportamenti lesivi all’ufficio della Procura della Repubblica. Lo scopo è chiaramente quello di ottenere una sentenza penale di condanna gravante sugli autori delle persecuzioni. Specialmente in ambito penale, è utile la corposa giurisprudenza in materia che – in assenza di disposizioni legislative ad hoc – ha identificato nel corso del tempo varie fattispecie di reato, ovvero reati già previsti dal Codice penale, che possono essere collegati al mobbing orizzontale o verticale, e quindi applicati a tale fenomeno.
La giurisprudenza penale ha allora ricondotto le condotte integranti il mobbing a reati come quello di maltrattamenti, di cui all’art. 572 c.p., o di abuso d’ufficio nell’ambito del pubblico impiego, di cui all’art. 323 c.p. Ma soprattutto ha chiarito che il mobbing può essere ed è una delle possibili espressioni pratiche del reato di stalking. Ciò in quanto quest’ultimo reato ha caratteristiche analoghe al mobbing, vale a dire continuità nel tempo degli atti di persecuzione e scopo di danneggiare la vittima. Dell’illecito inerente lo stalking, o atti persecutori, abbiamo già parlato più volte, in riferimento a varie sue espressioni pratiche, come ad esempio in ambito condominiale, o nell’ambito dei social network. Va da sè, che anche in ambito lavorativo – affinché possano applicarsi le regole in tema di stalking – il dipendente vessato dovrà dare prova in giudizio del fatto che le condotte lesive sono state persecutorie.
Concludendo, il contributo in materia, da parte della Corte di Cassazione, è stato significativo anche per un’altra ragione: secondo la Suprema Corte, l’indennizzo derivante da assicurazione Inail si applica anche ai casi inerenti il cosiddetto rischio non strettamente collegabile all’atto materiale della prestazione lavorativa, ma tuttavia legato in qualche modo alla prestazione stessa. Insomma, il lavoratore leso dal mobbing può trovare tutela anche con indennizzo Inail, a patto che provi il nesso tra malattia (danno psico-fisico) e contesto lavorativo (atti persecutori di mobbing).
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