Le cause in materia di diritto del lavoro e rapporti contrattuali tra azienda e dipendente non sono certo infrequenti in Italia, tanto che molto spesso le parti finiscono per giungere in Cassazione. E ciò anche in relazione a situazioni che non lascerebbero pensare ad attriti e tensioni con il capo: tra tali situazioni, la pausa caffè ha assunto rilievo e sulla sua durata e/o frequenza si è pronunciata appunto la Suprema Corte, con una recente ordinanza – ma non è la sola – che sicuramente sarà di orientamento in futuro, in casi analoghi. Vediamo più nel dettaglio.
In estrema sintesi, se è pur vero che la pausa caffè rappresenta anch’essa un diritto del lavoratore, è altrettanto vero che questi non può farne un uso indiscriminato nel tempo, magari al solo scopo di avere qualche momento di relax e svago in più, a discapito però dei suoi obblighi lavorativi. Così potrebbe essere riassunto il ragionamento della Corte, che tuttavia nei vari provvedimenti adottati nel corso del tempo, ha dimostrato di non giudicare sempre con particolare severità l’utilizzo della pausa caffè.
In particolare, ciò che conta per la Cassazione e che costituisce il presupposto di un licenziamento legittimo per giusta causa – dovuto all’uso eccessivo della pausa caffè – è rappresentato dalle gravi conseguenze negative, pagate dall’azienda, per l’uso sproporzionato della citata pausa. Nel suo recente provvedimento, ovvero l’ordinanza n. 17065 del 2020, la Suprema Corte ha negato l’illegittimità del licenziamento (per giusta causa) deciso da un’azienda di trasporti nei confronti di un suo dipendente, ovvero un autista che, secondo l’azienda, aveva fatto soste non autorizzate, durante le ore di servizio.
Assai esplicative le parole usate dalla Cassazione, in quanto – in queste circostanze – il fatto della pausa caffè è da ritenersi “inidoneo, di per sé, a giustificare la sanzione espulsiva sotto il necessario profilo della proporzionalità all’entità della condotta“. In buona sostanza, non può parlarsi di giusta causa di licenziamento, proprio a causa della oggettiva lievità dell’addebito verso il dipendente, da parte della società di trasporti. In particolare, in corso di causa, il datore di lavoro non ha provato “le gravi conseguenze (quali costi aggiuntivi per pedaggi autostradali extra, ritardo nella produzione e nello smistamento logistico del materiale ritirato presso la clientela, aggravio economico di ore di straordinario pagate al personale del magazzino) di quelle soste indicate nella lettera di licenziamento, soste giustificate dal lavoratore con l’esigenza di andare a prendere un caffè“. Ecco allora che, secondo la Cassazione, la pausa caffè in sè non può intendersi come un caso pratico di licenziamento per giusta causa.
Piuttosto, come in altre occasioni segnalato sempre dal giudice di ultima istanza, la pausa caffè – oltre alla finalità di fare un break dalla routine di lavoro – ha anche lo scopo di rafforzare le proprie energie psico-fisiche, per poter compiere al meglio il proprio lavoro nel corso della giornata.
Se mai, la pausa caffè prolungata o troppo frequente nel corso del tempo, può costituire valida ragione di licenziamento, soltanto se in corso di causa, viene provato o comunque emerge un danno o pregiudizio per il datore di lavoro, proprio a seguito di quelle soste. Insomma, se la pausa caffè usata in modo sproporzionato, diventa causa di rallentamenti nel flusso produttivo dell’azienda o nei servizi al pubblico offerti dalla stessa, ben potrà essere sfruttata come valida ragione di licenziamento per giusta causa.
Sono dunque le circostanze concrete, di volta in volta emergenti, a orientare in vario modo la Cassazione, sul tema della pausa caffè. Se quest’ultima è circoscritta nel tempo, non usata smodatamente e in maniera prolungata (come nel caso dell’autista di cui sopra), non può ritenersi valida ragione di licenziamento; altrimenti, se la pausa viene usata in modo deliberato, più volte nel corso dell’orario di lavoro e al mero scopo di svago, se non addirittura di “fuga” dal luogo di lavoro e dagli oneri ad esso collegati, sussisteranno certamente valide ragioni per allontanare il dipendente (e specialmente dopo vari richiami di natura disciplinare) dedito a break un po’ troppo frequenti e prolungati. In altre parole, il dipendente non può mai decidere arbitrariamente le durate della pausa, ma dovrà sempre rifarsi ai doveri contrattuali e ad alle regole aziendali.
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