Divorzio, crisi personale, crisi patrimoniale e nuovi equilibri tra gli ex coniugi. Cosa succede se l’ex coniuge più debole è in grado di lavorare?
La crisi del rapporto matrimoniale, il “manifesto” di Frida Kahlo
Nel Diario di Frida Kahlo la donna confessa di esser rimasta vittima di due traumatici incidenti: il primo, più propriamente “fisico”, quando purtroppo, all’interno di un autobus, all’età di diciotto anni rimase coinvolta nel tragico scontro che avviò la nota artista ad un calvario infinito; il secondo, legato ai sentimenti, avuto riguardo alla relazione amorosa che Frida intrattenne con il pittore Diego Rivera.
Un legame burrascoso ed atipico, quello lungamente intrattenuto dalle due anime “ribelli”, nel quale gli slanci libertini di entrambi erano all’ordine del giorno, ma indissolubile restava il vincolo affettivo e spirituale.
Vinta dalla sofferenza, Frida decideva di divorziare nel 1939, a causa della relazione adulterina che il marito consumò con la sorella della donna.
In quell’anno l’artista faceva esplodere i propri stati d’animo nel dipinto “Le dos Frida”, oggi custodito all’interno del “Museo de Arte Moderno”, in Città del Messico.
Sulla destra la pittrice tratteggia una Frida tipica della tradizione messicana, con il costume tehuana e con in mano la foto di Diego Rivera; sulla sinistra invece, viene ritratta una Frida in abito in stile coloniale, in pizzo bianco.
Lo spirito della donna si divide in due: la “vecchia” Frida guarda alle esperienze vissute ed ai momenti d’amore con il proprio uomo, la “nuova” Frida rivendica l’emancipazione e lo sdoganamento dai lacci del passato.
Tant’è che la “nuova” Frida decide di recidere con le forbici il legame di sangue ancora in essere con la “vecchia” sé.
Un gesto, questo, di natura archetipica, che può essere interpretato come esempio di ogni frattura affettiva, che si consuma all’interno di un rapporto di coppia consacrato con il matrimonio.
Lasciarsi il passato alle spalle, riconsiderare la propria vita e percorrerla con un nuovo spirito di autonomia e convinzione delle proprie forze: sono questi sentimenti che accomunano la Frida Kahlo del 1939 a tante altre donne che chiudono una relazione di coniugio, percorrendo le tappe della separazione e del divorzio.
Divorzio: dalla crisi affettiva e relazionale al riequilibrio dei rapporti patrimoniali
Invero, Frida recuperò un anno più tardi il rapporto con l’amato Diego, conservandolo poi fino alla morte.
Però la maggior parte delle storie si chiude definitivamente, comportando una frattura non più sanabile.
Voltare pagina è un vero e proprio percorso di rinnovamento di ardua percorrenza, ed a questo trauma personale debbono aggiungersi le questioni più contingenti, legate al riequilibrio degli assetti economici e patrimoniali della vecchia coppia.
L’assegno divorzile è stato interpretato lungo i decenni come una forma di “ultrattività” del rapporto coniugale.
Certo con il divorzio i risvolti affettivi e personali del matrimonio vengono meno, ma di fatto perdura un legame a livello patrimoniale.
Lo scopo dell’assegno divorzile è stato, lungo i decenni, quello di compensare quel coniuge che durante la vita di coppia ha impegnato la propria persona più all’interno della famiglia e meno (o per nulla) all’interno di profili lavorativi, subendo dunque un oggettivo “impoverimento” in conseguenza della cessazione del matrimonio, anche in considerazione di non facili possibilità di rinvenire, per il futuro, soddisfacenti sbocchi nel mondo lavorativo.
Avveniva così che costanti erano sentenze di divorzio all’interno delle quali veniva assicurato al coniuge meno impegnato nel contesto di lavoro, un riassetto di natura patrimoniale, al fine di consentire il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio a chi, all’esito del rapporto di coniugio, non dimostrasse autosufficienza economica.
Tenore di vita e mancanza di autosufficienza economica sono stati per lunghissimo tempo i parametri attraverso i quali i magistrati parametravano quel “riequilibrio” tra forze patrimoniali, tramite la previsione di un assegno in favore del coniuge più debole.
La rivoluzione delle Sezioni Unite: stop al tenore di vita
Con la celeberrima Sentenza “Grilli” dell’11 luglio 2018 (numero 18287), le Sezioni Unite della Cassazione hanno effettuato un deciso cambio di rotta, adeguando il diritto vivente all’evoluzione dei rapporti sociali e personali.
L’assegno non viene più considerato uno strumento per consentire il mantenimento del tenore di vita già goduto in costanza di coniugio.
Tuttavia non viene ridotto a mero strumento di tipo assistenziale, che si limiti ad assicurare al coniuge non autosufficiente una esistenza libera e dignitosa.
Il tenore di vita familiare e l’autonomia o indipendenza economica sono esposti al rischio dell’astrattezza e del difetto del collegamento con l’effettività della vita matrimoniale.
Diventa invece centrale per la Suprema Corte la funzione cosiddetta perequativa dell’assegno, parametrato all’attualità del contesto in cui viene meno il rapporto di coniugio.
Nel determinare la necessità dell’assegno e l’importo del medesimo, il magistrato deve oggi soprattutto valorizzare le scelte ed ai ruoli assunti dai due coniugi lungo gli anni della vita familiare.
Dovrà dunque accertare se la condizione di squilibrio economico patrimoniale sia da ricondurre, come causa-effetto, alle scelte comuni ed ai ruoli assunti all’interno della famiglia, tenendo presente come la funzione equilibratrice dell’assegno non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale ma soltanto al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole, alla realizzazione della situazione comparativa attuale.
Dunque, una verifica attuale e contingente, da svolgere caso per caso, senza automatismi di sorta.
Parametri sui quali andrà svolta l’indagine del giudice saranno la durata del matrimonio, l’età delle persone che pervengono al divorzio, i redditi e le rendite di cui godono i due ex coniugi, le condizioni psicofisiche dei medesimi; elementi, questi, che andranno letti sempre in prospettiva dell’apporto fornito in costanza di matrimonio dal coniuge più debole, in costanza di vita coniugale.
Con l’ulteriore doverosa precisazione che l’eventuale inizio di una nuova stabile convivenza fa cessare l’obbligo alla corresponsione di qualsivoglia assegno da parte dell’ex coniuge onerato.
Divorzio: come valutare le attitudini al lavoro da parte del coniuge “più debole”
Non poche sono state – e saranno in futuro – le obiezioni, da parte degli ex coniugi chiamati ancora alla corresponsione dell’assegno divorzile, volte ad evidenziare che il coniuge beneficiario (senza nascondersi dietro un dito, nella stragrande maggioranza dei casi, l’ex moglie), pur in grado di intraprendere un’attività lavorativa, non concretizzi sul mondo del lavoro queste capacità, e per questo peccherebbe di mancanza di diligenza e non sarebbe meritevole di alcuna contribuzione economica perequativa.
Tali argomentazioni, pur percorse in numerosi scritti difensivi, non possono trovare un valido sostegno a livello giuridico.
Lo scorso 7 settembre 2020 la Sezione Sesta della Cassazione (con Ordinanza rubricata al numero 18522) si è occupata proprio di una domanda di un ex marito, il quale aveva chiesto la revoca dell’assegno divorzile, poiché a suo dire l’ex consorte sarebbe stata in grado di trovare un lavoro, essendone abile.
La difesa dell’uomo insisteva anche sulla circostanza che il contributo al mantenimento divorzile non doveva esser considerato “un beneficio a vita” e non poteva considerarsi come un privilegio intangibile, e ciò proprio perché l’ex moglie era in grado di lavorare e, dunque, produrre reddito.
Invero, la donna durante i giudizi di primo e di secondo grado aveva fornito la prova di essersi attivata nella ricerca di una stabile occupazione, ma senza successo, accettando lavori a termine e partecipando a concorsi; dunque, l’autosufficienza economica non era di certo raggiunta.
Rigettando completamente la ricostruzione pretesa dalla difesa dell’ex marito, la Cassazione non fa altro che riprendere un principio già espresso in altre pronunce, secondo il quale l’attitudine dell’ex coniuge al lavoro assume rilievo solo se venga riscontrata una effettiva sopravvenuta possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, e non già sulla base di mere valutazioni astratte e ipotetiche.
Dunque, l’uomo non poteva certo pretendere la cancellazione dell’assegno divorzile per il solo fatto che l’ex moglie fosse “astrattamente” in grado di trovare lavoro.
Ben avrebbe dovuto dimostrare che la donna non si fosse attivata in concreto per rinvenire una stabile occupazione.
Circostanza, questa, sulla quale le prove raggiunte in giudizio smentivano totalmente la ricostruzione difensiva del ricorrente.
Ne derivava il mantenimento dell’assegno in favore della beneficiaria, con pagamento delle spese di giustizia a carico dell’ex marito soccombente davanti ai Supremi Giudici.
Non sia dunque letta la riforma successiva alla “Sentenza Grilli” come una indiscriminata deminutio dei diritti dell’ex coniuge più debole.
E’ sempre onere della Giustizia verificare il caso concreto e, laddove, pur in presenza di una capacità lavorativa astratta, non sia oggettivamente dimostrabile la possibilità concreta di acquisire un lavoro stabile, con un reddito personale che possa garantire autosufficienza, l’assegno di divorzio (secondo i nuovi parametri del 2018) sarà sempre garantito.
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