Dossier: la legge e il fine vita
I princìpi, i precedenti, la giurisprudenza e le leggi (con i loro profili potenzialmente incostituzionali) in materia di “fine vita” in Italia
Il background giuridico-costituzionale
[ad]Secondo la lettera dell’art 32, comma 2 Cost., “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”: vi sono quindi delle situazioni in cui la Carta costituzionale ammette una certa “elasticità” nell’applicazione del principio di volontarietà o consenso all’atto medico. Inoltre, sempre secondo la lettera dell’art. 32 Cost., “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, ed è lasciato al Legislatore il compito di relazionare, ovvero bilanciare, il diritto alla libertà di cura del singolo con il diritto alla tutela della salute pubblica. In tal senso, il costituente si è premurato di definire dei limiti al diritto di libertà di cura che godessero di una garanzia anche superiore a quella della fonte primaria, e ha sancito la legittimità di un eventuale interevento della Corte costituzionale a tutela del rispetto della persona umana, principio che nemmeno una legge sui trattamenti sanitari obbligatori potrebbe violare. Come scrive Valerio Onida, se è vero che la Costituzione “nasce sì per regolare le forme di esercizio del potere attribuito al popolo, ma anche, o ancora prima, per fissare i «confini» di questo potere, dunque per limitarlo. Anche il «popolo sovrano» non può e non deve essere un sovrano assoluto”, allora si comprende come i limiti costituzionali dei trattamenti sanitari, che derivano dal rispetto della persona umana, facciano parte di una sorta di “indecidibile” politico, fuori dalla portata dello stesso Legislatore.
La giurisprudenza del “caso Eluana”
Stante questa doverosa premessa, vediamo la vicenda – nota a molti – di Eluana Englaro: tra il 1999 e il 2006 sono state emanate ben 7 decisioni sul caso, tutte negative rispetto alla richiesta del padre di interrompere il c.d. trattamento NIA (nutrizione e alimentazione artificiali) e tutte tendenti a sottolineare, sebbene con argomentazioni diverse, l’incompetenza del giudiziario a decidere e di conseguenza il rinvio all’intervento del legislativo. L’ultimo grado di giudizio presso cui la vicenda si è svolta è stato quello della Corte di Cassazione. In tale sede, il principio personalista che informa tutto il testo della Carta fondamentale ha condotto il giudice a respingere ogni tentativo di definizione del concetto di dignità slegato da valori e ideali personalissimi del soggetto: così, il principio del consenso informato all’atto medico è stato ricostruito a partire da un’interpretazione sistematica del combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32 Cost., di modo che il diritto all’autodeterminazione terapeutica ha tradotto il concetto costituzionale della persona in termini di dignità plurale e soggettiva. Inoltre, con riferimento al principio della sacralità della vita, la Corte ha precisato quanto già affermato dal Tribunale di Roma a proposito del caso Welby, ovvero che un principio assoluto d’indisponibilità del bene vita non trova cittadinanza nel nostro ordinamento e che “c’è chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno. Uno Stato, come il nostro, organizzato, per fondamentali scelte vergate nella Carta costituzionale, sul pluralismo dei valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare anche quest’ultima scelta”. Dunque, per non cadere in una presunzione juris et de jure di favore incondizionato al mantenimento in vita, la Cassazione ha riconosciuto la possibilità che la volontà del soggetto incapace venga ricostruita attraverso percorsi presuntivi usuali in ambito processuale e ha sottolineato che la corretta interpretazione del diritto di autodeterminazione terapeutica è quella che pienamente attua il “principio di uguaglianza nei diritti di cui all’art. 3 Cost., che evidentemente non va riguardato solo nella finalità di assicurare sostegno materiale agli individui più deboli o in difficoltà, come gli incapaci, ma anche in quella di rendere possibile la libera espressione della loro personalità, della loro dignità e dei loro valori”.
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