Nel senato romano, Giulio Cesare sta prendendo posto quando vede arrivare Cimbro Tillio. Gli si avvicina come se dovesse sottoporgli una petizione, ma Cesare lo allontana con un gesto. Dopo, sottintende. Tillio non gli voleva chiedere alcun favore, voleva dare un segnale agli altri congiurati di assassinarlo. Non potendosi avvicinare, gli afferra la toga da dietro.
Cesare sbotta: «Ma questa è violenza bell’e buona!».
Gli saltano addosso i due fratelli Casca, armati. Uno lo immobilizza e l’altro tira un fendente mirando alla gola. Cesare, però, non è solo un politico: è anche un guerriero, e ha i riflessi pronti. Schiva il colpo – che lo prende di striscio alla gola – disarma l’aggressore e uccide con la sua stessa arma. Si butta in avanti per avere spazio di manovra, ma lo ferma un’altra ferita. In un istante realizza di essere circondato e condannato; si afferra la toga e se la alza fino a coprirsi il viso, per morire con dignità.
Cade senza un lamento.
L’intero senato fugge. Tre schiavi accorrono, lo caricano su una lettiga e lo portano a casa dove viene raggiunto dal medico, Antistio. Lui non può fare niente; di 23 pugnalate nessuna era stata letale tranne la seconda, quella in pieno petto che l’aveva bloccato mentre tentava di mettersi in posizione di combattimento.
Il conquistatore della Gallia, l’eroe di Roma, il più grande condottiero mai apparso sulla faccia della Terra muore il 15 agosto del 44 a.C. ucciso da venti miserabili. I motivi erano ufficialmente politici, ma in realtà gli assassini erano corrotti dall’invidia verso una divinità che di umano aveva solo l’aspetto.
Quando la notizia si sparge, l’impero sprofonda nel caos.
Cinque giorni dopo, al suo funerale, c’è una folla immensa arrivata dalle più remote province. Sono presenti le più importanti matrone, veterani, stranieri, nobili, popolani accorsi a onorare il più grande. Il corpo è su una pira. Quando viene accesa, i suonatori di flauto e gli attori vi gettano strumenti e vestiti che avevano indossato per celebrare i suoi trionfi. I veterani ci gettano le armi con le quali avevano combattuto per lui. Molte donne ci gettano i gioielli che Cesare aveva regalato loro. Colonne di stranieri, ognuno con le proprie tradizioni, onorano la salma.
Alla fine Marco Antonio, luogotenente – e migliore amico – di Cesare fa un discorso straziante, che carica di rabbia il popolo già in crisi emotiva fino alla citazione di Pacuvio: «Li ho forse salvati perché diventassero i miei assassini?»
La folla impazzisce.
Partono come animali a caccia dei colpevoli, veri o presunti che siano. Entrano nelle case di Bruto e Cassio ma le trovano vuote. Le devastano e ripartono fino a incappare in Cinna. Era effettivamente un cospiratore, ma quello afferrato dalla folla si chiama Elvezio Cinna, non Ezio; ha solo lo stesso cognome e non c’entra nulla, anzi: è un tribuno della plebe, da sempre grande sostenitore di Cesare.
Prova a spiegarlo, ma nessuno lo ascolta né gli crede. Lo sgozzano, lo decapitano, issano la testa su una lancia e la portano in giro per le strade di Roma a mo’ di trofeo, finché la moglie e i figli si gettano in strada incazzati come jene. Appurato l’errore, la testa viene gettata in un vicolo e gli assassini si dileguano disperdendosi.