Timoleonte e Timofane erano due fratelli, figli di una famiglia dell’alta aristocrazia corinzia. Entrambi abbracciano la carriera militare, dove sviluppano personalità molto diverse; Timoleonte è moderato, riflessivo e spesso idealista. Timofane è una testa calda estremista. Sono inseparabili come solo due fratelli nati vicini possono essere. Combattono insieme, soffrono insieme, crescono insieme. Un giorno, durante una battaglia, il cavallo di Timofane viene ucciso e cade in mezzo ai nemici, imprigionandolo con il peso.
Timoleonte vede la scena e scatta in avanti appena in tempo per salvargli la vita.
Le truppe raccontano la storia come un colpo di fortuna e un moto di coraggio epico. Il fratello salvato, però, la prende male. Troppo orgoglioso per accettare di essere stato salvato dal fratello minore, invece della gratitudine comincia a invidiarne la popolarità. Quando nel 364 a.C viene chiesto ai fratelli di difendere Corinto, Timofane ha occasione di dimostrare la propria superiorità: difesa la città arruola dei mercenari, occupa l’acropoli e si autoproclama tiranno, facendo giustiziare gli aristocratici perché non possano ambire a scalzarlo o coltivino idee democratiche.
È un colpo di Stato.
Il fratello lo va a trovare con due parenti e lo supplicano di tornare in sé. Timofane li deride e li minaccia. A quel punto, non si sa se con la consapevolezza di Timoleonte o meno, i due parenti gli uccidono a coltellate il fratello davanti. Al popolo piacciono estremisti e prepotenti: Timoleonte viene bandito dalla vita pubblica, disprezzato dal popolo e addirittura rinnegato dalla propria madre, che rifiuterà di vederlo per sempre chiamandolo fratricida, costringendolo a una vita di miseria e stenti, lontano da tutto e da tutti.
Da allora passano vent’anni
Nel 346 la Sicilia è ridotta a un deserto di terrore. Siracusa era sprofondata in una guerra tra fazioni, che si autoproclamavano regnanti e sterminavano gli avversari, devastandone le case e assassinando le famiglie. A un tiranno se ne succedeva un altro, e il resto della Sicilia greca, con i commerci fermi o boicottati dalle guerre, moriva di fame. Siracusa, un tempo centro militare e politico, era assediato da Dionisio il giovane.
In mare, Cartagine stava radunando una flotta mai vista prima per assaltare e saccheggiare la Sicilia. I siracusani creano una spedizione che di notte passa sotto la sorveglianza e arriva in Grecia per chiedere aiuto agli spartani, vecchi alleati e guerrieri potenti. Loro valutano la situazione e scuotono la testa: è sconfitta e morte certa. Allora la delegazione va a Corinto che, anche se meno forte dal punto di vista militare, aveva l’obbligo morale di aiutare Siracusa: dopotutto era una città fondata da corinzi. Anche i loro generali giungono alla stessa conclusione degli spartani: è una richiesta impossibile.
Siracusa non può essere salvata, ma vanno salvate le apparenze
Corinto deve poter dire almeno di averci provato, e per farlo deve sacrificare degli uomini. Il governo quindi raccolglie 700 tra carcerati e mercenari, poi cerca un generale abbastanza idiota da andare al macello, finché a qualcuno viene in mente l’infame Timoleonte. Ormai ha settant’anni, non ha figli né amici, la famiglia l’ha ripudiato, il popolo lo odia: se muore non dispiace a nessuno.
A quest’armata Brancaleone danno una decina di navi che galleggiano per miracolo e armi arrugginite, con le quali dovrebbero A) sconfiggere la più grande flotta mai costruita dall’uomo B) sconfiggere Iceta, tiranno noto per furbizia e crudeltà a capo di 5000 guerrieri d’elite e C) con gli uomini superstiti assaltare le mura di Siracusa e sconfiggere l’esercito di Dionisio il giovane, ormai penetrato in città.
L’anziano generale parte tra risate e pernacchie
Arrivato in vista della flotta cartaginese, prende le due navi più agili e messe meglio, e per qualche giorno fa minuscole incursioni senza ottenere alcuni risultati se non infastidirli. Dopo due settimane manda una scialuppa con un’ambasciata; millanta di possedere una flotta enorme ma ammette la superiorità marittima dei cartaginesi, e offre ai comandanti di trovarsi nella piazza di Reghion – Reggio, oggi – per trattare la resa.
I comandanti accettano e la città piomba nel caos più assoluto per l’arrivo di navi, soldati, truppe.
Nella confusione generale, Timoleonte s’infila in un vicolo, torna al porto e fa rotta per la Sicilia. I cartaginesi capiscono di essere stati truffati, ma non gli possono correre dietro: le autorità di Reghion si sono riunite per ufficializzare la resa e non vogliono offenderli, perdendo tempo in salamelecchi e casini burocratici. Timoleonte sbarca a Tauromenio – oggi Taormina – dove lo accoglie l’incredulo Andromaco, signore della città. I due si prendono così bene che Andromaco lascia un reggente e diventa il braccio destro di Timoleonte, aggiungendo i suoi uomini.
Ora c’è il problema di Iceta. Sa tutto quello che è successo, ma non è preoccupato. Raduna le sue truppe e le manda ad Adranon, dove si dovevano accampare e organizzare l’attacco. Timoleonte, però, non ha alcuna intenzione di fare la cosa più sensata: invece di trincerarsi e difendersi, a 70 anni imbraccia spada, scudo e attacca con tutte le sue forze nel cuore della notte. Gli uomini di Iceta sono colti alla sprovvista, credono di essere attaccati da altre forze e scappano, consegnando la città all’anziano generale.
Iceta non può più attaccarlo direttamente, così assolda dei sicari.
Purtroppo, oltre a una fortuna inaudita, Timoleonte sa scegliersi gli uomini. Andromaco ormai è diventato il suo migliore amico: per la scorta personale del generale fa venire da Taormina solo uomini di cui conosce la famiglia, mette assaggiatori a ogni pasto, infiltra spie ovunque; ogni tentativo di assassinare il generale viene stroncato o dalla sfortuna – un popolano riconosce l’assassino – o dalla bravura dell’amico.
Iceta se la mette via, ma resta il problema di Siracusa in mano a Dionisio il giovane. Qui Timoleonte non alza nemmeno la spada. Chiede di essere ricevuto a corte, poi mette il tiranno di fronte ai fatti: lì fuori ci sono cartaginesi, Iceta e noi. O attacchiamo tutti assieme e vi sterminiamo tutti, oppure ci consegni la città e ti salvi la vita. Dionisio, già in preda al panico, accetta.
In 50 giorni, Timoleonte ha fatto l’impossibile
I cartaginesi, però, se la sono legata al dito per la truffa di Reggio. Radunano tutte le loro forze, 70,000 uomini con armamento di prima categoria e guerrieri addestrati e sbarcano a Marsala, determinati a conquistare l’intera Sicilia. Scappano tutti davanti a quella che pare l’invasione aliena di una civiltà con tecnologia superiore.
Un migliaio di guerrieri di Timoleonte diserta, lasciandolo solo con Andromaco, 5000 fanti e 1000 cavalieri che marciano giorno e notte dandosi il cambio per dormire sui cavalli. Arrivano nel cuore della notte su un’altura vicino al fiume Crimiso, stanchi morti, e si fermano a riposare. All’alba, immersi nella nebbia, le sentinelle svegliano l’anziano generale: a quanto pare l’intera, immensa armata cartaginese sta marciando verso di loro, inconsapevoli della loro presenza. I primi a guadare il fiume sono i 10,000 opliti del battaglione sacro, i guerrieri più pericolosi.
Tanto per cambiare, ci si mette la fortuna
Il fiume è appena straripato e il terreno è un pantano. L’anziano si volta, prende scudo e spada urlando ai soldati di svegliarsi e muoversi, poi anche se esausti piombano sui cartaginesi che hanno appena messo piede a riva. Questi vedono spuntare dalla nebbia lame, denti e urla, senza capire chi sono o quanti sono. Vengono massacrati. I cartaginesi sull’altra sponda sentono le urla, non capiscono e si affrettano a guadare; alcuni affogano per il peso delle armi, altri arrivano senza fiato e vengono trucidati.
Quando realizzano che il loro battaglione d’elite è stato sterminato, non capendo contro chi, cosa e quanti stanno combattendo, scappano. Timoleonte non ha solo vinto, è anche diventato ricco: i forzieri con le paghe di 70,000 guerrieri sono tutti suoi.
Torna a Siracusa venerato come un Dio salvatore
Subito eletto sovrano, la prima cosa che fa è demolire il palazzo reale e sostituirlo con un tribunale, segno simbolico del fatto che a lui, la forma di governo chiamata tirannia, non garba. Le prime sentenze pronunciate sono condanne a morte di qualsiasi altro dittatore presente in Sicilia, tra cui Iceta. Fa redigere una costituzione liberale capace di dare ai cittadini democrazia e diritti. Istituisce bandi per ricostruire le città distrutte dagli anni di guerra.
Ormai quasi cieco, si ritira a Taormina dall’amico Andromaco, con regnanti che lo vanno a trovare in cerca di consigli. Il figlio di Andromaco, affascinato dai continui aneddoti che i due si raccontano bevendo vino, decide di trascriverli diventando uno dei pochi, se non l’unico, biografo di questa storia. Quando muore, al suo funerale accorre pressoché tutto il mondo antico.