Parto anonimo: riconoscimento maternità esperibile alla morte della donna
Parto anonimo: riconoscimento maternità esperibile alla morte della donna
L’opera “Due Madri, la madre nativa e la matrigna” realizzata nel 1906 dal pittore russo Vladímir Yegórovich Makovsky e custodita nel Museo Regionale delle Belle Arti di Samara, rappresenta con crudo realismo una scena di rivendicazione clamorosa, posta in essere da una donna molto umile davanti ad una famiglia alto borghese del tempo.
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Con fare deciso e polemico, la signora esibisce un documento dal quale parrebbe individuarsi l’effettiva nascita del bambino protagonista del quadro; quest’ultimo, nel frattempo, si rifugia impaurito tra le gambe della madre adottiva, anch’ella in stato di agitazione, mentre una inserviente della ricca famiglia cerca di placare l’azione della presunta madre biologica.
La scena descrive senza mezzi termini un momento di vita drammatico, sviscerando una tematica, quale quella della separazione tra figlio e madre naturale, che rappresenta una questione molto delicata, anche dal punto di vista del diritto.
Spostando l’attenzione sul bambino, non è infrequente che una persona mai riconosciuta dalla propria madre biologica, con la matura età senta l’esigenza insopprimibile di ricostruire le proprie origini di sangue, ed anche quelle giuridiche.
Si tratta di una ricerca del proprio “io” più profondo, volta a conoscere se stesso e la propria stirpe.
Ma anche, dal punto di vista del diritto, una esigenza di ricostituire un legame di discendenza.
La legge garantisce a tutte le donne che intendono partorire in anonimato, una segretezza assoluta per cento anni, come stabilito dell’art. 93 comma II del Decreto Legislativo n. 196/2003.
Tale presidio normativo è stato deliberato per salvaguardare la donna partoriente, la quale, trovandosi in condizioni di possibile difficoltà personale, patrimoniale o sociale, manifesti l’intenzione di non riconoscere il nascituro, ma si veda comunque preservato il diritto di procreare in una struttura sanitaria adeguata, mantenendo la segretezza circa la maternità biologica all’interno della dichiarazione di nascita.
Tuttavia, raggiunta la maggiore età, ogni individuo ha facoltà di adire il Tribunale per i minorenni al fine di avviare un procedimento giudiziale, attraverso il quale il giudice darà seguito a ricerche sulla persona della madre biologica, proverà a contattarla e verificherà con la stessa se sia possibile infrangere il vincolo di segretezza, svelandone l’identità al richiedente.
Peraltro, con recenti interventi innovatori, la Suprema Corte ha sancito il diritto del figlio, in caso di parto anonimo, di accedere alle informazioni relative all’identità della madre nel momento in cui quest’ultima non sia più in vita, non trovando applicazione il termine centennale.
L’azione di riconoscimento della maternità
L’art. 269 del codice civile prevede le modalità attraverso le quali si può procedere alla dichiarazione giudiziale della maternità (e della paternità).
La domanda davanti al Tribunale competente per materia, può sempre esser formalizzata liberamente, tranne nel caso in cui non è consentito il riconoscimento, ovvero quando si tratti di un individuo che è già figlio di altri due genitori (come stabilito dall’art. 253 del codice civile).
In pratica, per l’ordinamento attuale, sarebbe ben difficile vedere una scena, come quella raffigurata nel quadro di Makovsky.
L’art. 269 del codice civile statuisce inoltre che la prova del rapporto di filiazione possa esser fornita con ogni mezzo e, dunque, anche in via indiretta o attraverso presunzioni.
Il bilanciamento tra diritto alla segretezza del parto in capo alla madre biologica, e diritto alla conoscenza da parte del figlio
Con una recentissima Sentenza, pubblicata lo scorso 22 settembre, la Sezione Prima della Cassazione è intervenuta avuto riguardo alla domanda giudiziale di riconoscimento di maternità, promossa da un uomo mai riconosciuto dalla genitrice, la quale moriva prima dell’avvio dell’azione giudiziale del figlio.
Contro la domanda si schierava un’altra figlia, invece riconosciuta della donna deceduta, rivendicando il diritto della madre di mantenere la segretezza centennale prevista dalla legge.
Va detto che il diritto della donna a mantenere l’anonimato è stato oggetto anche di un intervento della Corte Costituzionale, la quale con Sentenza n. 278 del 2013 ribadiva che risiede nell’esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni personali, ambientali, culturali, sociali, tale generare l’emergenza di pericoli per la salute psicofisica o la stessa incolumità di entrambi e da creare, al tempo stesso, le premesse perché la nascita possa avvenire nelle condizioni migliori possibili.
In tale prospettiva, il diritto della madre biologica di mantenere l’anonimato al momento del parto si pone in una situazione di rango costituzionale, superiore anche al diritto di un figlio di ottenere declaratoria di riconoscimento dello status di filiazione.
In costanza di vita della donna, al figlio è precluso l’accertamento della maternità, a meno che sia proprio la donna a rompere il vincolo di segretezza.
Il diritto al riconoscimento dello stato figlio dopo la morte della madre biologica
I Supremi Giudici non tutelano con il medesimo rigore assoluto il diritto all’anonimato della maternità, qualora invece la donna sia deceduta, come nel caso che ha occupato l’attenzione della Cassazione con la Sentenza 19824, pronunciata appunto lo scorso 22 settembre 2020 dalla Prima Sezione Civile.
Quando subentra la morte della madre biologica, la segretezza imposta dalla legge viene compromessa, o “indebolita”, in considerazione della necessità di fornire piena tutela al diritto all’accertamento dello status di filiazione.
Nel bilanciamento di valori di rango costituzionale, spiegano i giudici di Piazza Cavour, l’esigenza di tutela dei diritti degli eredi e dei discendenti della donna che ha optato per l’anonimato non può che esser recessiva rispetto a quella del figlio che rivendica il proprio status.
Venendo meno, per effetto della morte della madre, l’esigenza di tutela dei diritti alla vita ed alla salute, che era stata fondamentale nella scelta del parto anonimo da parte della donna, non sussistono motivi ostativi invincibili non soltanto per la conoscenza del rapporto di filiazione (come già affermato in altre sentenze della Cassazione) ma anche per la proposizione dell’azione volta all’accertamento dello status di figlio naturale, ai sensi dell’art. 269 del codice civile.
Peraltro, nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, l’azione del figlio veniva proposta per ottenere l’accertamento della maternità nei confronti di una donna che aveva dimostrato nei fatti di aver superato essa stessa l’originaria scelta dell’anonimato.
Infatti dalle deposizioni dei testimoni era emerso che la donna aveva trattato il figlio non riconosciuto come uno dei suoi figli, accogliendolo anche in casa.
La Cassazione individuava ulteriori elementi probatori a sostegno della tesi del figlio.
In tal senso, gli Ermellini evidenziavano che l’art. 269 del codice civile, ammettendo anche il ricorso ad elementi presuntivi per l’accertamento di una maternità, consente l’utilizzo sia dell’accertato comportamento del preteso genitore, il quale abbia dimostrato nei fatti la volontà di accogliere come figlio la persona a cui favore si chiede la dichiarazione di maternità (cosiddetto “tractatus”), sia della manifestazione esterna di tale rapporto nelle relazioni sociali (cosiddetta “fama”), sia, infine, le risultanze di una perizia immuno-ematologica eseguita su campioni biologici di parenti stretti del preteso genitore.
In tal modo, si torna a ribadire, il diritto all’accertamento dello status di figlio, qualora la madre biologica muoia, è superiore alla posizione degli altri eredi e figli già riconosciuti della donna.
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