Va bene, Miranda, parliamo dell’inclusività e dell’etica nella moda
Smettiamo di cascare nella trappola della modella “diversa”, perché è un diversivo. Cominciamo a fare le domande giuste.
«Oh, ma certo ho capito: tu pensi che questo non abbia nulla a che vedere con te. Tu apri il tuo armadio e scegli… non lo so, quel maglioncino azzurro infeltrito, per esempio, perché vuoi gridare al mondo che ti prendi troppo sul serio per curarti di cosa ti metti addosso. Ma quello che non sai è che quel maglioncino non è semplicemente azzurro, non è turchese, non è lapis, è effettivamente ceruleo. E sei anche allegramente inconsapevole del fatto che nel 2002 Oscar de la Renta ha realizzato una collezione di gonne cerulee, poi è stato Yves Saint Laurent, se non sbaglio, a proporre delle giacche militari color ceruleo. E poi il ceruleo è rapidamente comparso nelle collezioni di otto diversi stilisti.»
Che meraviglia, ampliamo questa perla. Il “colore di moda” non è una brillante intuizione di un artista, ma viene anticipato dal Pantone Fashion Color Trend Report. Volete sapere che colori vedrete nei negozi la prossima primavera? Pronti qui. Volete sapere con quali nuance slavate i negozi d’arredamento riusciranno a vendervi mobili di cartongesso? Stupitevi. Le case di moda li leggono e ordinano i coloranti.
Ma se una volta erano di origine vegetale, oggi sono fatti con agenti chimici quali mercurio, piombo e permanganato di potassio, grazie ai quali per ogni tonnellata di vestiti colorati equivalgono 200 tonnellate di acque contaminate. La moda produce più anidride carbonica di tutto il traffico aereo e marittimo messi assieme. Smaltire le acque tossiche in Occidente sarebbe un salasso, ma non c’è problema: si fanno produrre in paesi dove si può corrompere funzionari o assassinare dissidenti, e soprattuto si può sversare in mare.
È per questo che se oggi indossiamo o maneggiamo vestiti troppo a lungo ci vengono irritazioni cutanee ed è per questo che interi villaggi in India hanno perso l’olfatto. In Cina, oltre il 70% dei fiumi sono contaminati e qualsiasi specie acquatica o anfibia si è estinta.
La derisione dell’usato, poi, è un capolavoro
«Dopodiché è arrivato a poco a poco nei grandi magazzini e alla fine si è infiltrato in qualche tragico angolo casual, dove tu evidentemente l’hai pescato nel cesto delle occasioni.»
Ce lo auguriamo tutti. Perché se non ci fossero le persone che danno una seconda vita agli stracci di plastica imbevuti di veleno, quelli tornerebbero ancora prima e ancora più spesso nel posto dove sono stati prodotti. In Pakistan, India, Vietnam ci sono ettari di dune fatte con questa spazzatura. Non sono biodegradabili.
«Tuttavia quell’azzurro rappresenta milioni di dollari e innumerevoli posti di lavoro»
È verissimo, nel senso che per un posto di lavoro in quest’industria di terroristi ci sono 10,000 schiavi che vivono nell’immondizia, mangiano agenti chimici, respirano solventi e muoiono di cancro a vent’anni o schiacciati dall’ennesimo crollo a tredici. O magari in un incendio.
“Milioni di posti di lavoro”
«e siamo al limite del comico quando penso che tu sia convinta di aver fatto una scelta fuori dalle proposte della moda quando indossi un golfino che è stato selezionato per te dalle persone qui presenti… in mezzo a una pila di roba.»
Sì, sì, una pila di roba che non vale nulla, tanto che alle “persone presenti” non fa alcuna differenza buttare nell’inceneritore l’invenduto appena passa di moda, anche se ufficialmente varrebbe “milioni”. Questo è comico. E sta diventando una gag obsoleta, quindi bisogna svecchiare l’insegna e rimodernare gli interni di questo porcile chiamato fashion business.
Come?
Ma capitalizzando i frustrati in Internet, ovviamente
Parafrasando quello che ha scritto una lettrice: “Mettono la foto di una donna diversa dalla Barbie (es. di peso superiore a quello di un chihuahua, trisomica, con lineamenti irregolari…) dove di solito ci sono foto di cloni della Barbie. Qualche idiota palesa la propria triste condizione insultando la donna in questione. Tutti insorgono a difenderla, così da un lato la foto circola moltissimo e dall’altro i marchi passano per i buoni, i sensibili, gli etici.
E magari, facendolo, riescono a distrarre l’opinione pubblica dalla carneficina di documentari, articoli, reportage, fotografie e petizioni che prima di Internet non facevano mezzo metro, ma adesso si stanno diffondendo. Per vedere la faccia sotto la mascherina body positivity basta guardare The true cost del 2015 o RiverBlue del 2017. Non sono “rivoluzionari”. Sono nazisti mascherati da partigiani.
La soluzione c’è. Costa poco e rende molto – a noi. Non a loro.
Per demolire questi maiali basterebbe pretendere che nell’UE vengano venduti solo capi prodotti in fabbriche che rispettano le stesse normative, tutele e salari minimi che ci sono da noi. All’improvviso le aziende non potrebbero più schiavizzare i bambini e non gli converrebbe più delocalizzare la manodopera. Questo, tra l’altro, creerebbe lavoro qui.
Poi si potrebbe – no, scusate: si dovrebbe – ripristinare le uniformi scolastiche a medie, liceo e università. Perché in un colpo dimezzi il guardaroba degli adolescenti, insegni l’uguaglianza davanti alla cultura e impedisci si formino le meccaniche deleterie (avallate dalle case di moda) per cui “questa marca ce l’hanno tutti e tu no perché sei povero”.
Passi piccoli? Forse.
Ma ogni volta che le case di moda tentano di dire “hey, siamo un’azienda contraria alle discriminazioni!” mostrando una tizia random che non è un’acciuga photoshoppata, invece di cascare nella trappola domandiamo dove sono le loro fabbriche e come mai discriminano la manodopera occidentale.