Depressione e diritto: previdenza, lavoro, assegno di mantenimento
Impotenza ed arrendevolezza nell’Ofelia di Millais
Senso di frustrazione, angoscia, impotenza, vuoto personale: si tratta di un vissuto proprio di una dimensione depressiva permanente, psicopatologia di arduo superamento.
La depressione inerisce i cosiddetti disturbi dell’umore, compromettendo la qualità della propria sfera emozionale ed affettiva e minando alla base l’esistenza quotidiana.
Si osservi lo splendido dipinto “Ophelia” del pittore preraffaellita John Everett Millais, datato 1852 e custodito nella Tate Gallery a Londra: l’artista disegna la tragica morte della giovane aristocratica idealizzata da Shakespeare nell’Amleto.
La donna, scivolata in un ruscello, resta adagiata sul letto del rivolo, inerme ed esanime, senza opporre resistenza allo scorrere dell’acqua, ma anzi spiegando le braccia verso un destino fatale, impotente e vinta dallo scorrere degli eventi.
Il simbolismo dell’opera è infinito, soprattutto avuto riguardo al significato metaforico delle varietà floreali che circondano la donna e che fanno da paesaggio tutto intorno.
Qui però preme evidenziare l’arrendevolezza e l’assenza di reazioni da parte della ragazza, sopraffatta, dopo la sanguinosa morte del padre per mano di Amleto, da uno stato depressivo invincibile, verso il quale non viene opposta più alcuna forza, neppure quella minima energia vitale di rialzarsi in piedi e ritrovare se stessa, rispetto allo scorrere mortifero dell’acqua del ruscello.
Esemplificazione perfetta, quella resa dal pittore Millais, della depressione, un male oscuro che nell’attuale società sta galoppando, fino a diventare la prima patologia invalidante per numero di persone malate.
In Italia sono circa tre milioni le persone che soffrono di disturbi depressivi, e circa la metà è vittima della forma più grave della psicopatologia.
Depressione e accertamento dell’invalidità: riflessi assistenziali e lavorativi
Lo stato depressivo viene riconosciuto dall’INPS come malattia in conseguenza della quale lo Stato provvede all’erogazione delle misure di assistenza verso l’invalido civile.
Viene riconosciuta l’invalidità civile a tutti coloro che risultino possedere una patologia tale da compromettergli la normale capacità lavorativa, se in età da lavoro (cioè tra 18 anni e 65 anni e 7 mesi), o da renderlo incapace allo svolgimento delle attività tipiche della propria età.
Il Decreto del Ministero della Sanità del 5 febbraio 1992 approva la nuova tabella indicativa delle percentuali d’invalidità per le minorazioni e le malattie invalidanti.
Diversi sono i gradi di invalidità avuto riguardo alle manifestazioni della depressione: si va dalla sindrome depressiva endoreattiva lieve, per la quale è prevista una invalidità del 10%, passando per la psicosi ossessiva, cui vengono attribuiti dai 71 agli 80 punti di invalidità, fino ad arrivare al ritardo mentale grave e profondo, per il quale viene attribuito il punteggio del 100% di invalidità civile.
La famosa legge “104” (pubblicata il 5 febbraio 1992) prevede inoltre, per coloro che risultino vittima di uno stato depressivo con un grave handicap mentale, motorio o sensoriale, tale da impedire o limitare notevolmente l’integrazione sociale, lavorativa, personale e familiare, l’erogazione dei relativi benefici previsti dall’ordinamento.
In particolare, si avrà diritto alla fruizione dei permessi retribuiti, con una cadenza di 3 giorni al mese; si avrà preferenza nella scelta della sede di lavoro più vicina al proprio domicilio; si potrà opporre un rifiuto al trasferimento di sede prospettato dal datore di lavoro; si potrà godere di diverse agevolazioni di carattere fiscale, per l’acquisto dell’autoveicolo, di strumenti tecnologici, la detrazione delle spese mediche ed assistenziali.
Di grande rilievo da punto di vista del mondo del lavoro, è una pronuncia molto famosa resa dalla Cassazione, che ha interessato un lavoratore vittima di uno stato depressivo patologico, in conseguenza del quale, pur ponendosi in malattia, non veniva rinvenuto dal medico fiscale all’interno del domicilio dichiarato, durante l’orario di reperibilità previsto per legge.
Con Sentenza n. 21621 del 2010 si è ribadito il principio, più volte espresso dai Supremi Giudici, secondo cui per giustificare l’obbligo di reperibilità del lavoratore malato in determinati orari, non è richiesta l’assoluta indifferibilità della prestazione sanitaria da effettuare, ma è sufficiente un serio e fondato motivo che giustifichi l’allontanamento dal proprio domicilio. In tal senso, la Sezione Lavoro ha ritenuto “serio e fondato motivo” quello di “recarsi al mare, a trecento metri di distanza dal … domicilio, e restare ivi per qualche ora della mattinata”; condotta, questa, posta in essere da una dipendente vittima di depressione cronica.
Gli obblighi dell’ex coniuge per quanto all’assegno divorzile
In questo quadro non può essere dimenticato il contesto familiare, né possono essere sottaciuti gli obblighi di mantenimento che potrebbero essere previsti a carico dell’ex coniuge, laddove l’assegno divorzile si sia reso necessario in conseguenza della sopravvenienza di uno stato depressivo, tale da minare alla base le possibilità lavorative.
Al riguardo, si è pronunciata lo scorso 2 ottobre la Sezione Prima della Suprema Corte, con Ordinanza numero 21140.
Una donna chiese la modifica delle condizioni di divorzio, nello specifico formalizzando domanda di condanna dell’ex marito alla corresponsione di un assegno divorzile, prima non previsto tra le parti, atteso il riferito netto peggioramento delle proprie condizioni personali e patrimoniali, rispetto al momento in cui veniva pronunciata la cessazione degli effetti civili del matrimonio.
La Corte d’Appello, riformando la pronuncia di rigetto del Tribunale, determinò l’obbligo dell’ex marito verso la donna, in euro 200,00, sulla base del seguente quadro fattuale: l’ex moglie aveva lavorato, percependo uno stipendio consistente, per circa quattro anni, poi ancora aveva prestato un’ulteriore attività per pochi mesi per una modica somma mensile, restando alla fine inoccupata dopo aver raggiunto l’età di 55 anni; ciò proprio a causa di un accertato peggioramento dello stato di salute, derivante dalla sopravvenienza di un disturbo depressivo.
Avuto riguardo alla situazione dell’ex marito, invece, non risultavano variazioni rilevanti rispetto alla situazione esistente alla data della sentenza di divorzio.
Risultava altresì che alla data del ricorso in primo grado la donna aveva dimostrato di aver cercato lavoro, anche partecipando a corsi di riqualificazione, di essere disoccupata da 62 mesi e di aver subito un peggioramento delle condizioni di salute, raggiungendo un’età che rendeva complicato trovare altro impiego lavorativo.
Pertanto, si riteneva che sussistessero giusti motivi per regolamentare un mantenimento mensile a carico dell’ex marito.
La Cassazione confermava in toto la decisione intrapresa dalla Corte d’Appello, rinnovando il proprio orientamento consolidato, secondo il quale il giudice deve valutare la concreta possibilità, a carico del coniuge che chieda il mantenimento, di procurarsi il reddito adeguato al proprio sostentamento.
Ebbene, sulla scorta di suddetto principio, non v’è chi non veda come la sopravvenienza dello stato depressivo determinava nell’ex moglie un’oggettiva riduzione delle possibilità di provvedere in autonomia al proprio mantenimento.
Ragione, questa, che rendeva ineccepibile la previsione dell’assegno divorzile, inizialmente non sussistente nello specifico caso.
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