La battaglia sul “politicamente corretto” non si combatte sugli estremismi
Come sarebbe bello avere un mixer per abbassare la frequenza dei mattoidi e ascoltare solo quelle ragionevoli. Provo io.
Più o meno tutti, in Internet, sono incappati nei due schieramenti: da una parte quelli che mettono l’asterisco alla fine della parola per essere inclusivi, usano terminologie e neologismi, discutono di microaggressioni, mansplaining, manterrupting (esiste, sì), si indignano per battute che risultano sessiste, razziste e omofobe.
Dall’altra ci sono quelli per cui “il politicamente scorretto ha stancato”, modo politicamente corretto per dire che vogliono tornare a deridere donne, gay, immigrati, disabili e minoranze come se fossimo ancora nel 1990. Infatti, Carlo Verdone si lamenta del fatto che “continuare con questo politicamente corretto è un errore micidiale” perché “faremo meno ridere”.
Di mezzo si fa un errore tipico: la si butta in politica
Chi si considera di sinistra si affretta ad abbracciare qualunque cosa sia politicamente corretta, e a quelli di destra non rimane che trincerarsi dietro il diritto di parola, la libertà di espressione, che poi stringi stringi si riduce a libertà d’insulto. Siccome in Internet si parla e si ragiona solo per estremismi, il discorso finisce in vacca prima ancora di cominciare, riducendosi al solito, triste e pallosissimo “fascista” e “buonista”. Se proviamo a lasciar perdere la politica e ci limitiamo alle persone, però, vanno fatte alcune osservazioni.
I lettori/spettatori si sono SEMPRE indignati
Pier Vittorio Tondelli, scrittore simbolo degli anni ’80, nel romanzo Rimini racconta la vita in redazione. Il protagonista è un giornalista che riceve quotidianamente lettere di biasimo, indignazione e protesta per inezie. Si dice incredulo che una persona abbia trovato il tempo e la voglia di collezionare tutti i refusi e le imprecisioni contenute nel giornale, per poi allegarli alla fine di ogni mese con annessi insulti e derisioni.
Lo stesso mi veniva raccontato dal mio caporedattore al Gazzettino. La società non cambia, cambiano i mezzi. Internet ha permesso alle minoranze – e anche ai mattoidi, vabbè – di avere una voce. Prima di Internet le diecimila lettere d’indignazione finivano nel tritacarte. Oggi le vedono tutti.
Il politicamente scorretto non esiste
Tutti, nel salotto di casa propria, diciamo cose che non ripeteremmo in pubblico. Non è una limitazione della propria libertà, è una questione di decenza. Non usciamo con l’uccello di fuori o con la maglietta sporca di sugo, veniamo multati e biasimati se in pubblico compiamo azioni disdicevoli. Questo non significa che non facciano ridere quando le vediamo; significa che è sbagliato farle. Quando ho fatto assistenza disabili ho vissuto scene che mi fanno morire dal ridere a distanza di 20 anni, solo che non si raccontano. Perché non esiste il politicamente corretto, ma esiste la decenza. Anche se non se ne parla più.
La vera dittatura è l’opposto di quello che dicono
Le difficoltà rafforzano l’artista, diceva De Sade. Gli fanno trovare nuovi modi per aggirare le regole. Durante la censura del 1932, il cinema di Hollywood ha sfornato capolavori. Oggi prendete uno dei tanti momenti brillanti di Deadpool; quando si trova davanti a una criminale si ferma: “è sessista se ti faccio del male o è più sessista se non ti faccio del male?”. Fa ridere perché è attuale, cammina sul filo del rasoio delle contraddizioni e – a volte – delle ipocrisie.
Se fossimo nel 1970, o se gli sceneggiatori fossero vecchi tromboni rimasti fermi a quell’epoca, Deadpool le avrebbe tirato una sberla dicendo “ah zoccola!”. La differenza è che con la scena di Deadpool oggi sorridono sia uomini che donne. Nella seconda, solo gli uomini. Eppure ci vorrebbe poco a far apprezzare un film anche a Bruce Lee. La cosa divertente, poi, è che Colazione da Tiffany del 1965 omette un dettaglio: lei, nel libro, fa la prostituta.
Se silenziamo le voci di fanatici e isterici, rimane una richiesta legittima e una bella sfida: evolvere intrattenimento e comunicazione in modo da coinvolgere più persone. Il che, come corollario, porta anche più soldi.