Diritto ai buoni pasto e rinuncia pausa pranzo: come funziona?

Pubblicato il 23 Ottobre 2020 alle 12:03 Autore: Claudio Garau
Rinuncia pausa pranzo e diritto ai buoni pasto: come funziona?

Diritto ai buoni pasto e rinuncia pausa pranzo: come funziona?

I buoni pasto sono ben conosciuti da chi quotidianamente si reca sul luogo di lavoro: essi costituiscono un mezzo di pagamento dal valore prefissato, che può essere adoperato per comprare esclusivamente un pasto o prodotti alimentari. In relazione ad essi, in passato, sono emersi alcuni dubbi circa la possibilità di averne comunque diritto, pur in ipotesi di rinuncia alla pausa pranzo. Ci ha pensato, ancora una volta, la Corte di Cassazione a chiarire i contenuti della questione e a dare – con una sua sentenza – una risposta che, di fatto, mette al riparo da ogni dubbio. Vediamo più da vicino.

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I buoni pasto: alcuni tratti essenziali

Prima di capire perchè la recente pronuncia della Suprema Corte è così importante in tema di buoni pasto, ricordiamo – per chiarezza – alcuni elementi essenziali del contesto. Negli ultimi anni, il settore è stato oggetto di rilevanti novità normative: infatti, il decreto n. 122 del 2017 ha cambiato la disciplina, ponendo nuove regole in materia di “servizi sostitutivi di mensa”, ovvero i buoni pasto.

I buoni pasto rappresentano, dal punto di vista giuridico, un titolo di legittimazione, in formato elettronico o cartaceo, dal valore predeterminato e che conferisce al suo titolare il diritto ad avere un servizio sostitutivo di mensa per una somma corrispondente al valore facciale del buono pasto stesso, presso i locali di somministrazione e cessione di cibi e bevande pronte per il consumo, che siano convenzionati con la società che emette il documento in questione.

In estrema sintesi, l’iter di emissione ed utilizzo dei buoni pasto è fondato su due fasi distinte, che producono questi rapporti:

  • il primo è quello che intercorre tra società emittente del buono e datore di lavoro;
  • il secondo è quello che intercorre tra società emittente del buono e i locali convenzionati, che vendono i pasti ai lavoratori subordinati, titolari dei buoni pasto.

Insomma, non ci si può sbagliare, anche perchè detti buoni possono essere pacificamente utilizzati sia dai lavoratori dipendenti a tempo pieno che a tempo parziale. Come accennato sopra, il buono pasto costituisce una prestazione sostitutiva del servizio di mensa, e solitamente non influisce su altri elementi retributivi. Tecnicamente è anche detto fringe benefit, o beneficio accessorio.

I citati buoni pasto non possono costituire oggetto di cessione o commercio di alcun tipo e possono essere cumulati fino a 8 buoni per volta. Il loro uso vale per soltanto per l’integrale valore facciale.

La utile sentenza della Cassazione sul tema

Veniamo dunque alla questione centrale, da cui abbiamo iniziato: è possibile aver diritto ai buoni pasto, se si rinuncia alla pausa pranzo? L’eventualità non è affatto rara se pensiamo ai tanti lavoratori che, invece di uscire dal luogo di lavoro, nello spazio di tempo previsto per la pausa pranzo, permangono in ufficio per chiudere qualche altra pratica. Ebbene, in dette circostanze il datore di lavoro potrebbe contestare al dipendente – rimasto a lavoro – di non aver usufruito materialmente dei buoni pasto e potrebbe dunque decidere di non versare i detti buoni al lavoratore. Ne può certamente insorgere una contestazione, per la quale il dipendente esige il corrispondente in denaro dei buoni e l’azienda dà risposta negativa: ed è proprio in una situazione come questa, che la recente sentenza della Cassazione – la n. 22985 del 2020 – è decisiva per capire chi ha ragione.

In base al ragionamento fatto valere dai giudici di legittimità, è essenziale distinguere tra dipendente che rinuncia alla pausa pranzo per sua iniziativa e dipendente che lo fa per motivi legati a ragioni organizzative di servizio e di gestione del carico del lavoro, dell’azienda o dell’ufficio della PA in cui lavora. Ebbene, nella prima ipotesi il lavoratore perde il diritto ai buoni pasto; nella seconda ipotesi lo mantiene.

Per giungere a dette conclusioni, la Suprema Corte ha rimarcato che la funzione dei buoni pasto, ovvero il diritto all’utilizzo degli stessi, ha natura di tipo assistenziale e non retributivo. In altre parole, non può essere in alcun modo ritenuto assimilabile al diritto alla retribuzione, giacchè la sua esclusiva finalità è quella di riparare al disagio del lavoratore che, in assenza di un servizio mensa, è costretto comunque a mangiare fuori casa, presso un esercizio convenzionato. Ecco dunque che – in base al principio affermato dalla Corte – il dipendente che domanderà il corrispondente in denaro del buono pasto non versato, non potrà che ricevere risposta negativa.

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Concludendo, appare dunque piuttosto chiara la stretta interrelazione tra diritto al buono pasto e suo effettivo utilizzo in pausa pranzo: se il lavoratore subordinato sceglie di non usufruirne e di restare in ufficio per portarsi avanti con il lavoro o anche per poter uscire prima dei colleghi, il diritto ai buoni pasto è perduto, giacchè la scelta di non avvalersene è puramente personale, e non un comando imposto dai superiori e dovuto alle esigenze aziendali o della PA.

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L'autore: Claudio Garau

Laureato in Legge presso l'Università degli Studi di Genova e con un background nel settore legale di vari enti e realtà locali. Ha altresì conseguito la qualifica di conciliatore civile. Esperto di tematiche giuridiche legate all'attualità, cura l'area Diritto per Termometro Politico.
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