Nel 1993 il quartiere Macallè di Mestre non era molto diverso dal Catene di Marghera. C’era la stessa atmosfera da Guerrieri della notte. Gli adolescenti ne stavano alla larga. Era l’alveare di un paio di famiglie problematiche e aggressive, connesse – alla lontana – con la Mala del Brenta. Del resto Macallè e Catene erano i laboratori dove l’eroina di Felice Maniero faceva i primi test.
Trovavano le cavie negli androni dei palazzi, appoggiati al portone del cantiere nautico, negli angoli trasandati dal comune. Il posto preferito dove scaldare cucchiaini e morire, a Macallè, era quel tentativo di parco fatto da pioppi moribondi di edera e panchine rosa malva. Una domenica, dopo messa, i bambini giocarono per un intero pomeriggio davanti a un cadavere.
“Pareva dormisse”, avevano detto le madri.
Erano numerosissimi. I Bianchi [nome di fantasia] erano cinque fratelli, i Rossi[nome di fantasia] solo quattro, ma ognuno aveva parenti o amici sparpagliati nei vari casermoni popolari tra Pep, Bissuola e Stazione. Il sabato pomeriggio si riunivano al Riviera o al Pool&company, le uniche due sale giochi che li facevano entrare.
Facevano tremare la vetrata coi Fifty, entravano a giocare a biliardo e dopo mezz’ora si mettevano a molestare ragazzine o fare a botte coi fidanzati. I Bianchi erano una stirpe piuttosto sporca e disordinata, tuttavia, come i Rossi e le famiglie davvero problematiche, avevano un orgoglio di famiglia. Si tenevano uniti.
Se di sabato sera i normali sedicenni avevano voglia di farsi una partita a House of the dead o Point blank era il caso di mandare qualcuno in ricognizione. Se Bianchi o Rossi attaccavano briga toccava lasciar correre. Ti venivano addosso a un tratto, sbucando chissà da dove. Non potevi metterti contro quelle tribù, non c’era da fidarsi. Un altro mai visto prima ti ficcava un coltello tra le scapole e scompariva, com’era successo al figlio del droghiere. Chi è stato? Mai visto. E perché l’ha fatto? Non lo so.
Grazie a queste caratteristiche, il sedile dei loro Fifty era sempre occupato da gran belle ragazze, che impiegavano poco tempo a imparare il modo di fare e a metterlo in pratica. Ti arrivavano lì, facevano le simpatiche e le carine, poi si mettevano a urlare che le avevi toccate. O eri bravo a correre, o erano guai.
El boa era un’altra storia
Figlio della cuoca di un ristorante che aveva poco tempo per stargli dietro, dato che la manodopera extracomunitaria costava assai meno di lei, fin da piccolissimo aveva dato segno di avere la testa un po’ fuori bolla. Era uno di quei bimbi che sulla scala dell’intelligenza tengono il piede sollevato sul gradino dell’autismo, ma l’altro ben piantato sull’introverso. Suo padre era un manovale grosso, ma l’unica cosa di grossa che aveva el boa era il naso. Un naso gigantesco. Una montagna di naso. Molto rosso, anche, che gli faceva sembrare la faccia una boa di porto, da cui il soprannome.
A vederlo era grottesco. Piccolo e striminzito, passava mezze giornate seduto sugli scalini di qualche condominio, solo e abbandonato come un giocattolo rotto. Era tranquillo, e nonostante sua madre facesse una vita d’inferno lo teneva in ordine. Le altre madri giravano alla larga sia da lui che da lei, per quell’atavica convinzione che un bambino strano è prova di malattie genetiche e veicolo di contagio.
Passarono gli anni, la madre del Boa morì e lui si sposò con Miriam Bianchi, l’unica femmina della famiglia rimasta storpia dopo un incidente in motorino. Non era ubriaca o drogata; stava solo facendo la Romea quando un camion inchiodò, lei ci finì sotto col suo Area 51, le ruote schiacciarono il serbatoio e quello esplose, dilaniandole la gamba sinistra e spalmandole addosso miscela infuocata. Ne era uscita zoppa e con la faccia simile a una statua di cera lasciata al sole.
Nessuno sa come fecero a interagire, ma quando lei e boa si sposarono, le donne di Mestre non risparmiarono i commenti. Sibilavano che il sangue malato non dovrebbe riprodursi, men che meno con quello cattivo, cercando conferme scientifiche dalle farmaciste.
Io servivo loro caffè freddi, cornetti e granite al limone
L’incidente di Miriam era coinciso con l’arresto di Maniero, e somigliava al refolo di vento che annuncia il temporale. Faccia d’angelo aveva pianificato bene la sua uscita di scena, mettendo sulla bilancia nomi e nascondigli dei suoi ex complici, più un sacco di consulenze e favori. La malavita veneta era stata derattizzata, e i rami più distanti all’improvviso non se la passavano più bene. Tra riformatori e carcere, dei Bianchi e dei Rossi restavano briciole. Dalle feste coi tavoli al Terminal, all’Area city e al Goduria erano passati a baretti dei cinesi.
Finiti i soldi avevano iniziato a sbranarsi tra loro, finendo in carcere o al camposanto.
L’unica rimasta indenne era proprio Miriam
El boa era sempre uguale. Piccolo d’aspetto e malaticcio. Dio solo sa com’era vissuto da quando era morta sua madre, ma era diventato un mendicante. Viveva con la moglie in una casupola abbandonata in periferia, che era stata acquistata dai Bianchi con l’idea di demolirla e trasformarla in una reggia, ma era rimasta un rudere col tetto fatiscente. El boa di giorno bighellonava per piazza Ferretto facendo la posta alle signore che andavano ai caffè o a fare la spesa: «Siora!» esclamava con quel suo fare aggraziato «Ea ga mica un euro par comprar un panin?»
I ragazzi delle famiglie per bene, quelli che nelle sale giochi giravano col Woolrich, i jeans firmati e le New Balance, ora studiavano per rilevare le aziende di famiglia o lavoravano in botteghe altrettanto ereditarie. Si trovavano in piazza all’aperitivo per discutere di amanti e discoteche, cercando di somigliare ai personaggi dei cinepanettoni. Bevevano birre piccole, prosecchi, spritz senza seltz e non lasciavano mai il resto, fossero stati pure venti centesimi. Quei begli spiriti se la spassavano con el boa, addirittura lo incoraggiavano, indicandogli i bersagli più promettenti.
«Vai da quello! Quello ti dà qualcosa sicuro!»
«Vai dal Teo, ha detto che voleva darti dieci euro!»
Ce n’era uno, avvocato figlio di brillanti avvocati, che faceva sempre grandi battute su el boa. Era diventato il suo animale da compagnia. Gli faceva pulire lo studio, a volte d’inverno lo lasciava dormire nell’androne del palazzo con la moglie, dov’erano le caldaie. Quando saltò fuori che el boa aveva fatto un figlio con la storpia, a Mestre molti sghignazzavano dicendo che dovevano esserci stati almeno dieci tentativi andati a vuoto, prima.
In effetti la bambina – Rosa – non era venuta granché bene; aveva gli occhi storti e aveva la stessa corporatura esile del padre, ma fu la sua fortuna. Nessuno dice “povera bambina” se la bambina è brutta, e nessuno chiama gli assistenti sociali. Con le unghie e coi denti, Miriam ed el boa erano riusciti a tenersi Rosa stretta.
Il casino accadde quando l’avvocato brillante venne scoperto dalla moglie con una delle tante forosette che giravano per la piazza la domenica pomeriggio. Arrivavano a frotte da Maerne, Borbiago, Marocco, Preganziol, tutte maggiorenni o quasi. Tirate a festa, fingevano di guardare le vetrine per osservare il riflesso degli uomini al bar, tanto che le commesse dei negozi si divertivano a spernacchiarle dall’interno senza che se ne accorgessero.
La moglie dell’avvocato se la godette un sacco a spennarlo, e lui dovette tornare a vivere dai genitori. El boa aveva perso la sua principale fonte di reddito, ma in città i begli spiriti non mancano mai. All’avvocato si era succeduto un commercialista assai più brillante, con la passione delle corse di cavalli e degli scherzi.
Vedevi arrivare la famiglia del boa in fila indiana
Prima lui, poi Miriam, leggermente più alta, e poi Rosa, che era quasi un metro e ottanta, ma con uno strano problema: se un uomo o una donna la guardavano per più di cinque secondi, lei scoppiava a piangere. Quando succedeva, el boa e Miriam le correvano subito vicino. Era così alta che dovevano mettersi in punta di piedi per arrivarci, ma cominciavano tutti e due ad accarezzarle le guance magre e le spalle ossute sotto le canottierine sbiadite. «Su, su» le dicevano «No sta far cussì». Rosa andava a scuola il meno possibile, perché le coetanee non le facevano fare una vita facile. Le adolescenti sanno essere di una crudeltà rara e acuminata.
Un giorno, davanti al negozio di jeans che era stato macelleria, lui e la famiglia stavano riposandosi e mangiando due panini. Il direttore della banca andava spesso a pranzo al Lupo nero, e uscendo si fermò a fissare Miriam. Non che la vedesse davvero. Il direttore era un uomo untuoso, elegante e timido, che si perdeva nei suoi conti e badava al mondo esterno solo quando gli entrava in ufficio. Si era solo incantato, ma el boa andò su tutte le furie:
«Cosa guardi mia moglie? Cosa ca*zo vuoi?» urlava in dialetto, coi denti radi e anneriti «Non permetto a nessuno di guardare così mia moglie!».
Il direttore tagliò la corda di buon passo, ma la scena era stata vista dai bottegai che la raccontavano al bar spanciandosi dalle risate. Non avevano mai visto el boa arrabbiarsi. E aveva addirittura pensato che uno come il direttore, uno che ci teneva all’aspetto, sposato e benestante, potesse interessarsi aea storpia, la Miriam Bianchi che ormai aveva i capelli incrostati in un unico, enorme dread e chiedeva i panini di scarto al McDonald della piazza.
«Cioè, el pensa che so’ muger sia bellissima» sghignazzava il sarto figlio di sarti.
«Questa è da sfruttare, è troppo grande» aveva detto il commercialista figlio di commercialisti, ed era serio.
Cominciarono col fermare el boa per strada mentre chiedeva l’elemosina
Lo prendevano in disparte offrendogli uno o due euro, e poi gli facevano strane allusioni. Gli raccomandavano di stare attento, perché Miriam era molto ambita tra gli uomini, e a quanto pare lei non disdegnava. Si divertivano così tanto a vedere l’espressione seria, stupita, dolorosa negli occhi del boa. Il commercialista nominò alcuni cittadini rispettabilissimi che affermava di aver visto uscire di soppiatto dal rudere dove viveva el boa, tra cui il droghiere vicino al Pool&company, che in realtà era un uomo timido e modesto, e gli sfasciò la vetrina a calci.
Nei mesi seguenti, aiutati dalle mogli che si divertivano anche loro un mondo, il commercialista e il suo gruppetto riuscirono a fargli prendere a pugni un turista, a molestare un rappresentante della Folletto e a rompere il setto nasale a un commesso gay.
Inventare tresche del mostro era diventato l’hobby dell’alta borghesia
Era magnifico. Era così divertente. Mentre servivo da bere non li ho mai sentiti parlare d’altro. Era diventato il collante del gruppo. Si raccontava che el boa avesse cominciato a picchiare Miriam e che questa lo sopportasse stoicamente. Qualcuno l’aveva visto picchiarla per strada. Dissero che lei rimaneva ferma a farsi menare e non piangeva nemmeno granché. Una sera, sbronzi, presero le macchine e andarono fino al rudere dove abitava el boa, e non era difficile guardargli dentro casa: le finestre erano ricordi del 1950.
Assistettero alla scena di Miriam seduta su una sedia mentre lui la legava. Ridendo a crepapelle, le anime buone capirono il motivo. Nel pomeriggio era stato riferito al boa che un uomo avrebbe fatto visita a Miriam nel cuore della notte. Rosa stava fuori casa, dove c’è il muretto che dà su quel graffito enorme.
El boa, finito di legarla, uscì nel giardinetto di erba incolta e si sedette al buio, in attesa, finché scoppiò a piangere. Chissà perché, a un tratto, perfino a quegli uomini che facevano del loro meglio per arrivare in fondo a un’estate noiosa, la scena che vedevano non parve più divertente. Riaccesero il motore e tornarono in centro.
Il giorno dopo il commercialista entrò al bar e cominciò a raccontare la storia. C’erano molti ragazzi là intorno, che spesso origliavano per farsi due risate. Lui raccontava la storia bene, con ritmo, ma nessuno rideva. Sembrò che improvvisamente si odiassero tutti, lì dentro, e dopo avermi chiesto di alzare la musica, con una scusa o l’altra se ne andarono ben prima del solito.