Mascherine coronavirus e marchio CE: la Cassazione sul punto
In questi ultimi mesi, tutti abbiamo usato e continuiamo ad usare le mascherine coronavirus per salvaguardare la nostra salute e quella del prossimo, mentre camminiamo per strada, in una piazza o quando entriamo in un negozio per fare acquisti. Ebbene, anche in materia di mascherine coronavirus, la Corte di Cassazione ha dato utili indicazioni, con una recentissima sentenza, ossia la n. 29578 del 2020. Vediamo dunque, più nel dettaglio, cosa ha stabilito in tema di mascherine senza marchio CE e frode in commercio.
Come accennato, la presa di posizione della Suprema Corte sulle mascherine coronavirus è assai interessante per gli elementi considerati: sintetizzando quanto stabilito dal giudice di legittimità, non costituisce il reato di frode in commercio – di cui all‘art. 515 del Codice Penale – la vendita di mascherine che non abbiano la marcatura di sicurezza europea, ovvero il simbolo CE, giacchè detto simbolo è obbligatorio soltanto per certi prodotti specifici, e non per generici e complementari dispositivi di protezione. Ma se la mascherina è venduta come specifico dispositivo anti-covid, allora scatta l’obbligo del marchio CE, che certifica la conformità del prodotto ai requisiti di sicurezza stabiliti dall’Unione europea.
In buona sostanza, ricorre il reato di frode in commercio, se i prodotti venduti sono diversi dal modo in cui sono presentati al pubblico e alla clientela. Quindi, se in modo chiaro la mascherina non viene presentata al potenziale cliente come presidio anti-covid, ovvero come una delle mascherine coronavirus, se ne deduce – da un lato – che il venditore non può essere incolpato di truffa, e – dall’altro – che non è ammesso il sequestro in via preventiva.
La Cassazione ha così messo la parola fine ad una controversia che vedeva come accusato un negoziante che aveva subito il sequestro, da parte della GdF locale, di un ingente quantitativo di mascherine vendute senza marchio CE, ma classificate in modo chiaro nei confronti della potenziale clientela, come “mascherine di comunità”, ovvero non di tipo chirurgico e non classificabili dunque come dispositivo anti-covid.
Ricordiamo, per completezza, che le mascherine di comunità non sono considerabili mascherine coronavirus chirurgiche, ovvero a uso medico, giacchè queste ultime sono certificate in base alla loro capacità di filtraggio. In particolare, rispondono alle caratteristiche previste dalla norma UNI EN 14683-2019 e hanno lo scopo di impedire la trasmissione. Le mascherine di comunità, invece, hanno la funzione di ridurre parzialmente la circolazione del coronavirus, e non ricevono specifiche certificazioni: dunque non sono dispositivi medici o di protezione individuale, ma semplici misure igieniche complementari, che di per sè non impediscono la trasmissione.
In buona sostanza, sarebbe un errore di diritto sequestrare a priori delle mascherine senza il marchio CE, giacchè andrebbe prima verificato che il detto dispositivo sia stato presentato e venduto come presidio medico, ovvero come una delle mascherine coronavirus. Soltanto in quel caso, in mancanza del marchio CE, sarebbe legittimo il sequestro, altrimenti se si tratta di mascherine di comunità, venduta come tali agli acquirenti, non si può parlare nè di sequestro, nè tanto meno di frode in commercio.
Concludendo, la Suprema Corte ha dunque dato ragione al negoziante che aveva fatto ricorso, non essendovi gli estremi per configurare il reato citato, e chiarendo così che il marchio CE non è indispensabile per ogni tipo di copertura per il volto.
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