Una domenica qualunque del 1700, quattro amici se ne vanno all’osteria per un pranzo veloce. Si schiantano di vino, salumi, formaggi e motteggi finché da mezzogiorno arrivando a pomeriggio inoltrato, ormai ridotti a bestie. Sono entusiasti all’idea di tornare a casa per accoppiarsi con le rispettive compagne, ma il più saggio di loro fa notare che ormai è tardi: a casa li aspetta un pomeriggio di urla, mattarelli e mal di testa.
Decidono che è più saggio cenare e dormire lì, per poi rincasare lunedì mattina.
L’oste ha a disposizione solo una stanza con due letti, ma gli amici si adattano e lui va a prepararli. Tra gli amici c’è un parrucchiere che ben conosce la natura dei propri compagni, e li informa che lui vuole dormire, non fare l’alba a furia di scherzi. Sceglie come compagno di letto quello più sonnacchioso che accetta di buon grado, mentre i due simpaticoni dormiranno nell’altro. «Non c’è problema» dicono gli altri due, ma soffrono terribilmente.
Devono riuscire a fargliene almeno uno
Mentre il parrucchiere e l’amico si accomodano di sopra, i mattacchioni prendono l’oste in disparte e gli ordinano che qualunque cosa succeda, qualunque rumore senta, non li dovrà disturbare. Anzi, li dovrà proprio chiudere a chiave dentro. Poi gli chiedono una forma di ricotta e si dividono; uno convince il parrucchiere e l’amico a uscire per ammirare il tramonto sulle colline, l’altro entra nella stanza e mette il formaggio sotto le lenzuola dalla parte dove dormirà il parrucchiere.
Vanno a cena, si ubriacano senza ritegno e poi tornano in camera barcollando. L’amico sonnacchioso ormai è così sbronzo che lo devono aiutare a svestirsi, poi lo sistemano a letto dove le lenzuola sono pulite. L’elettricità non esiste, e l’unica luce viene dal caminetto. Mentre i due mattacchioni s’infilano a letto supplicano il parrucchiere di assicurarsi che il fuoco sia spento, che loro temono di morire arsi vivi.
Lui toglie i ceppi, sparpaglia le bronze, ci butta la cenere, ma quelli continuano a dirgli che lì si vede ancora un bagliore, lì una fiammella, finché quello si stufa e ci getta sopra il contenuto del pitale. La camera è completamente buia. A tentoni, il parrucchiere raggiunge il letto, guidato dal russare dell’amico.
S’infila sotto le lenzuola e caccia un urlo inorridito
«Che è?» chiedono gli amici, trattenendo le risate.
«È che questa carogna che io mi elessi per compagno mi ha concio il letto; che maledetto sia egli. Vergognoso, dèstati!» urla il parrucchiere, poi comincia a percuotere l’amico con le mani piene di quelle che crede siano deiezioni. L’amico si sveglia rabbioso come tutti gli ubriachi, sente il molliccio caldo e giunge alle stesse conclusioni del suo carnefice. Schizza fuori dal letto ormai lercio, e tra pugni e inciampi raggiungono l’uscio. È chiuso e non risponde nessuno. Gli amici nel letto si dichiarano infastiditi dal baccano e suggeriscono ai due di sistemarsi in un cantuccio.
«Che cantuccio o non cantuccio? Per grazia di costui il letto è un letamaio!» grida il parrucchiere. Tra il fuoco spento e la temperatura cominciano a battere i denti dal freddo, finché gli amici si impietosiscono e gli spiegano lo scherzo. A quel punto gli insulti si sprecano, ma dopo molto borbottare il parrucchiere e il sonnolento malcapitato si sistemano per terra tra coperte fradice di ricotta.
Questa perla, parafrasata da un racconto di Gasparo Gozzi – e trovata nel Novelliere – oltre a dipingere uno scorcio senza tempo della natura umana, ricorda che molti di noi hanno avuto amici così, poi abbandonati per strada quando il confine tra scherzo e crudeltà si andava pericolosamente assottigliando.