Nel 1996, tra grezzi di provincia, bombe artigianali e fallimenti

Metal, realtà rurali, esplosioni e amore. Una storia dalla provincia, mentre il mondo si occupa degli Stati Uniti.

L’autunno del 1996 fu piuttosto freddo. La campagna trevigiana era uno spettacolo sublime e desolante. Le foglie cambiavano colore, la nebbia gelida saliva al mattino e non c’era verso di scaldarsi. Atza, un mio compagno di sala giochi, frequentava una forosetta che tra trattori, rotoballe e bar di paese si era reinventata metallara. Si erano conosciuti l’anno prima a un concerto degli Iron Maiden a Pordenone. Da allora, per riuscire a limonarla, Atza prendeva l’autobus a Mestre, arrivava a Treviso, cambiava autobus e dopo due ore giungeva nell’Italia rurale del 1830.

Nel tragitto a piedi non passava inosservato.

Atza aveva il viso scavato dall’acne, occhiaie grigie, lunghi capelli neri, giubbotto di pelle nero, jeans sdruciti neri, anfibi neri, un pentacolo al collo e braccialetti con teschi. La sua apparizione scatenava campane, macchine dei Carabinieri, telefonate e trasmissioni radio, giacché secondo le anziane era l’Anticristo e avrebbe causato moria di bestiame.

Pamela era figlia unica di una famiglia di contadini

La madre passava le giornate fuori casa tra estetisti e parrucchieri, il padre lavorava nei campi e in casa, a sorvegliare la verginità della figlia, restava l’anziana nonna Teresa. Una badessa sul quintale che rifiutava qualsiasi invenzione successiva al tardo ‘800. Macinava il caffè a mano, cucinava con la stufa a legna, faceva la polenta mescolandola per quattro o cinque ore pur di non acquistare quella pronta.

Aveva una voce gracchiante da strega delle fiabe, mani paffute che non stavano mai ferme. Sgranavano rosari, tessevano maglioni, indicavano dèmoni nel televisore e placavano gli ormoni di Pamela a ciabattate. Atza odiava la vecchia con ogni goccia di sangue, come solo un adolescente odia chi si frappone tra lui e l’amore. Dopo l’ennesimo pomeriggio passato a far finta di parlare di musica con Pamela, tornato a Mestre entrò al Pool con gli occhi fuori della testa.

Doveva trovare un modo per allontanare la vegliarda.

«La missione ha uno scopo nobile, senz’altro» annuì solennemente Ario «E un uomo con una sacra missione trova conforto nel reato. Quale intendi abbracciare? L’omicidio, il sequestro di persona, l’abigeato? Le possibilità sono infinite. Io la butto lì: raid punitivo nella porcilaia. Tra l’altro i maiali sono rivendibilissimi, io ve lo dico.»
«Ario, serve una soluzione fattibile» gemette Atza.
«Ma lo è! Lo è! Non abbiamo forse rapito il gattino alla Marta, l’anno scorso!»
Ci scambiammo occhiate inorridite: «Sei stato tu?»
«Era per dire. Vai a sapere chi è stato o perché» sospirò Ario, guardando fuori dalla vetrata «Povera bestia. Comunque si può fare, quello sto dicendo. Avete proposte migliori?»

Io proposi di attirare l’anziana fuori casa con una finta telefonata dalla sagrestia, ma era troppo farraginoso. Fu quella volta che Luca, futuro padre di famiglia, agente immobiliare e buon cattolico, svelò la sua vena di psicopatia. Sorseggiando tè alla pesca – al Pool non servivano alcolici – appoggiò la lattina, si accese una Marlboro light e con l’aria di chi commentava il tempo, disse: «Facciamo esplodere qualcosa.»

Ario si voltò, le labbra arricciate verso il basso, la testa che annuiva lenta e greve: «Sei proprio diventato un uomo, Luca.»
«Atza dovrebbe riuscire a concupire la donzelletta che vien dalla campagna in mezzo a un bombardamento?» obiettai.
«È la cosa più metal che io abbia mai sentito» mormorò lui «Vi prego, facciamolo.»

Sfortunatamente, all’epoca ci sembrò una buona idea

Le nostre competenze sugli esplosivi si limitavano ai raudi, ma le sale giochi anni ’90 erano piene di uomini di ogni età, professione e psicopatologie. Gufo era uno studente universitario con una barba ispida, baffetti da pornodivo anni ’70, chiodo di pelle e onnipresenti occhiali da sole blu, sottili e ovali. Passava le serate al videopoker e nessuno, nemmeno i più rissosi, osava disturbarlo.

Era l’esplosivista di Mestre.

Come Michael Bublè, saltava fuori soltanto verso Natale, producendo una sconfinata antologia di ordigni artigianali e petardi elaborati. Era un bombarolo, forse brigatista o ex brigatista, capace di incredibili performance. Petardi banalissimi come gli Zeus, i Magnum o i Mega, nelle sue mani triplicavano o quintuplicavano la potenza. È grazie a questo talento che anni dopo sedurrà mia sorella, ma è un’altra storia.

«Di cosa parliamo, quando parliamo di esplosioni?» domandò Gufo, addentando il club sandwich. Fu anche il primo momento in cui mi domandai se la mia vita stava andando nella direzione giusta.
«Noi siamo qui in cerca d’illuminazione, oh venerabile» disse Ario, allargando le mani «La tua arte ci è ignota.»
«Un’esplosione non è soltanto un botto. Non è soltanto fuoco, distruzione, pezzi che volano, gente che urla: è un ritornello. Tutti si fermano ad ascoltarlo, a vederlo, perché la vita è ciò che succede all’uomo tra un’esplosione e l’altra.»

«Sì, ma io voglio avere un rapporto sessuale, non finire in galera per strage» disse Atza.
«Questo non è lo spirito giusto» disse Gufo.
«Infatti, Atza, perché devi rovinare tutto? Ascolta il maestro» lo rimbrottò Ario.


Gufo si fece descrivere la casa

Quella di Pamela era un villino a due piani, squadrato e costruito senz’amore. D’inverno la temperatura sfiorava lo zero assoluto, tanto “si dorme bene al freddo” e “a casa non c’è mai nessuno”. L’unico locale dove non si vedeva la condensa del fiato era la cucina, in cui la vegliarda albergava perché c’era la stufa di ghisa. Quel monolite nero aveva scaldato decine di generazioni, e la vecchia la venerava quanto e più di una figlia.

Era anche l’unica cosa che la teneva inchiodata lì dentro.

Dopo lunghe trattative, per 10,000 lire Gufo creò una bomba “ma moscia, tranquilla”. Atza avrebbe dovuto andare a trovare Pamela, poi con la scusa di salutare la vecchia avrebbe inserito la bomba nella stufa – possibilmente senza farsi notare – e l’ordigno dopo una manciata di minuti avrebbe prodotto uno scoppio seguito da fumo acre e puteolente. La vecchia avrebbe dovuto andarsene e areare il locale.

Venerdì sera Gufo consegnò ad Atza un involucro di carta stagnola grosso come una pallina da tennis. Sabato mattina il metallaro partì per la sua sacra missione. Aspettammo tutto il giorno di vederlo spuntare all’ingresso del Pool&Company. Poi la domenica sera. Poi capimmo che qualcosa era andato storto, e quello che ci faceva presagire il peggio era che Gufo era scomparso. Passata una settimana telefonai a casa di Atza con la voce più innocente che potevo, e la madre rispose che era in ospedale.

Perché le cose non erano andate come previsto

Atza era arrivato già molto nervoso. Nervoso come solo una persona che va in giro con una bomba artigianale può essere. Era entrato a casa sotto lo sguardo severo di nonna Teresa, si era tolto la giacca, l’aveva appesa ed era rimasto in salotto a chiacchierare con Pamela. Dopo qualche minuto in cui sudava come un cammello, straziato dai dubbi sulle conseguenze, si era alzato, aveva raggiunto la giacca, estratto la pallina da tennis e s’era recato in cucina, dove l’anziana stava facendo una copertina a maglia. Aveva detto “ho qui una cartaccia, la butto dentro” e aveva gettato l’involucro all’interno prima che la vecchia potesse reagire.

L’autunno del 1996 fu piuttosto freddo. La campagna trevigiana era uno spettacolo sublime e desolante. Le foglie cambiavano colore, la nebbia gelida saliva al mattino e il BA BAM fu udito a due chilometri.

L’esplosione trasformò la stufa in un cannone che sparò via il comignolo sul tetto, facendolo atterrare nell’orto del vicino, duecento metri a sudovest. Lo sportellino attraversò la cucina e si conficcò nella madia, proiettando braci roventi che incendiarono le tende di lino. Lo spostamento d’aria disintegrò i vetri delle finestre, fece saltare la luce e assordò Atza ma risparmiò i timpani di nonna Teresa, già sorda dell’80%. La vecchia si limitò a cadere di schiena dalla sdraio urlando «AAAAAHH I TEDESCHI».

Convinti che ormai l’integrità strutturale della casa fosse compromessa fuggirono all’esterno. Qui Atza in stato confusionale tentò di palpeggiare Pamela, ma arrivò il padre dai campi. Quando fece domande Atza ipotizzò una fuga di gas; purtroppo la casa non era dotata né di metano né di bombola, quindi veniva a mancare il principale indiziato. I pompieri arrivarono quando il padre aveva già provveduto a spegnere l’incendio con la pompa, e stava bastonando Atza con il manico rotto di un forcone.

Erano anni in cui la gente non querelava, e Atza oltre ad avere un timpano perforato, tre costole rotte e una commozione cerebrale non rivide mai più Pamela.