Il tema della democrazia interna ai partiti risale ai lavori della Costituente. Oggi un progetto di legge targato PD lo rimette al centro della discussione parlamentare
[ad]L’attuale crisi della politica ha il suo epicentro nel discredito dei partiti e nella crescente sfiducia nella loro capacità di svolgere l’importante funzione di rappresentanza che gli è assegnata dalla Costituzione. Le speranze di un sistema partitico riformato e rigenerato in conseguenza del passaggio ad un sistema di elezione prevalentemente maggioritario sono state deluse. La transizione istituzionale ha positivamente accompagnato una più vasta evoluzione sociale e politica, leggibile nella stessa ispirazione maggioritaria che sembra caratterizzare le scelte politiche compiute dai cittadini in tutte le consultazioni elettorali avvenute negli ultimi anni, e per tramite della quale alcune vecchie anomalie del sistema partitico italiano sono state rimosse. Nonostante ciò, fenomeni di degenerazione e di frammentazione ulteriore sono intervenuti a complicare il quadro, di modo che ancora non può dirsi concluso e completato il percorso della transizione italiana in chiave coerentemente bipolare e de-radicalizzata. In questa caratteristica incompiutezza della transizione italiana si è soliti vedere un limite di natura costituzionale: l’invecchiamento della Costituzione del 1948 e l’incapacità delle forze politiche parlamentari (drammaticamente testimoniata dai ripetuti fallimenti delle apposite Commissioni bicamerali) a operare la revisione costituzionale resa necessaria dal mutamento degli assetti reali dei poteri.
Anche se questa analisi appare condivisibile, rimane insondato il tema della democrazia interna ai partiti, costante nella storia dell’Italia repubblicana, a cominciare dalla nostra Carta costituzionale: in tal modo si rischia di lasciare spazio ad una polemica antipartitocratica che, spesso confondendosi con l’antipolitica, sfuma in un alterco sulla natura ed il ruolo dei partiti politici, così inflessibile da giungere a negarne la stessa funzione democratica. Non è un caso allora se nel nostro Paese, in considerazione del particolare grado di logoramento del rapporto fiduciario tra i partiti e la popolazione, la società civile chiede con sempre maggiore insistenza, di potere partecipare attivamente e in maniera propositiva alle vicende politiche. Si tratta quindi di riprendere, almeno in parte, i fili del discorso sulla disciplina giuridica dei partiti, di modo che, a dispetto di sterili polemiche antipolitiche, l’essenziale funzione democratica dei partiti non possa essere più semplicemente presunta, o peggio ancora rivendicata con arroganza, ma richieda che i partiti siano effettivamente e autenticamente soggetti che agiscono secondo metodi democratici.
È ben noto che l’articolo 49 della Costituzione fa cenno alla libertà di associarsi in partiti e al “metodo democratico” della vita politica, ma non fa alcun riferimento alle forme della vita interna dei partiti. Il dibattito sull’articolo 49 che si svolse in Assemblea Costituente si declinò in funzione dei diversi significati dell’espressione “metodo democratico” e si concentrò in particolare sull’emendamento Mortati che mirava a imporre un vincolo di democraticità interna per cui: “tutti i cittadini hanno diritto di riunirsi liberamente in partiti che si uniformino al metodo democratico nell’organizzazione interna e nell’azione diretta alla determinazione della politica nazionale”. Si noti inoltre che, nella seduta del 22 maggio 1947 – dopo la crisi di governo dovuta alla Guerra Fredda – l’onorevole Moro, pur ribadendo l’importanza di non porre limiti alle finalità perseguite dai partiti, per evitare il rischio di decisioni arbitrarie “sulla base del presunto carattere antidemocratico del loro programma”, in accordo con Mortati, propose la costituzionalizzazione del vincolo democratico interno, sulla base della considerazione che se non vi è una base di democrazia interna, i partiti non potrebbero trasfondere un indirizzo democratico nell’ambito della vita politica del Paese. Tale proposta non fu tuttavia adottata dalla Costituente e il riferimento al “metodo democratico” richiamato nell’articolo 49, anziché imporsi come condizione di vita dei partiti politici, restò solo un limite legato all’uso della violenza nel concorso alla determinazione della politica nazionale.
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[ad]Se diversamente ha agito il Costituente spagnolo del 1978, che – pur rifacendosi in larga parte al modello della legge fondamentale di Bonn del 1949 – ha recepito nell’articolo 6 il solo vincolo interno per i partiti e non il vincolo della “democraticità esterna” dei fini perseguiti (che a Bonn era stato costituzionalizzato dall’articolo 21) in polemica con il recente passato nazista e nel quadro anticomunista generato dalla Guerra fredda, proprio dopo la fine di questo conflitto, anche in Italia si riaccende il dibattito sulla vexata quaestio di normare alcuni aspetti dei diritti e doveri degli iscritti, così come alcune funzioni pubblicistiche dei partiti, al punto che, come se alla Costituente avesse prevalso la tesi mortatiana, si è parlato di “attuare l’articolo 49”. La ratio ultima di un tale dibattito inerisce la possibilità di dar luogo ad una efficace legislazione sulla democrazia interna ai partiti e sulla partecipazione dei cittadini alle scelte che li riguardano che, se non imposta dall’articolo 49 della Costituzione, è tuttavia coerente con la relativa insita finalità del libero associarsi dei cittadini in partiti, ovvero con la stessa funzione pubblica dei partiti volta alla “determinazione della politica nazionale” attraverso il concorso con metodo democratico. La domanda che ci si pone, nei termini del dibattito così come posto in Costituente, quanto mai attuale, è se possa darsi metodo democratico nell’attività esterna dei partiti laddove essi non hanno una struttura democratica della loro vita interna. Nodo dicotomico tra democrazia dei partiti e democrazia nei partiti che oggi, a fronte di una sempre più insistita richiesta sociale di regolazione, il legislatore è chiamato inesorabilmente a sciogliere.
“Affinché i cittadini riescano davvero ad influenzare la politica nazionale, a concorrere a determinarla, occorre che le loro esigenze e le loro preferenze trovino una sede adeguata di ricezione e traduzione all’interno dei partiti”[1]. Pertanto, la proposta di legge su “democrazia interna dei partiti e disciplina delle elezioni primarie”, illustrato lo scorso 14 aprile da Walter Veltroni, Stefano Ceccanti e Salvatore Vassallo, intende rilanciare la funzione democratica dei partiti attraverso una disciplina giuridica che regolamenti “quelle attività del partito che più direttamente incidono sul funzionamento delle istituzioni” [2], ovvero attraverso la disciplina delle procedure interne per la scelta dei candidati alle competizioni elettorali. Essa dunque non si propone di istituire un controllo sui fini dei partiti né sulla struttura sostanziale dei loro organi, ma propone un’esigenza di democrazia procedurale e di regole certe per la formazione di quella volontà politica che si esprime nell’azione esterna del partito e nello svolgimento della sua essenziale funzione pubblica. Con ciò non si pretende di ridefinire lo status giuridico dei partiti, ma semplicemente di legarlo in maniera più esplicita e stringente a requisiti democratici minimi che rendano effettiva quantomeno la contendibilità della leadership attraverso elezioni primarie.
Le primarie hanno suscitato opinioni contrastanti in ambito politico, così come in quello accademico: molti hanno richiamato i rischi di plebiscitarismo delle primarie, altri hanno sottolineato il pericolo di indebolimento dei partiti a fronte di un effetto personalizzante delle primarie. Tuttavia, accanto a tanto scetticismo, al fine di evitare l’imposizione di candidati “dall’alto”, senza una verifica reale della loro rappresentatività, molti hanno sottolineato le potenzialità dello strumento primarie come modalità partecipativa alla vita politica che trova seguito fra i cittadini e che, soprattutto, consente di rinnovare quei meccanismi di rappresentanza politica che, sempre più ostaggio di pratiche trasformistiche, hanno di fatto allontanato i cittadini dalle istituzioni. Le primarie non sono un fatto puramente tecnico, ma al contrario un procedimento significativamente politico. Rappresentano un nuovo rapporto di responsabilità civile e partecipazione politica, basati su di un metodo semplice, trasparente, democratico, che garantisce una sana competizione elettorale, tra persone, proposte ed idee.
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[ad]L’obiettivo è quello di coinvolgere direttamente la base civile dei partiti politici, e quindi i cittadini, nel processo di formazione della classe dirigente. Fondamentale a tale riguardo è che il coinvolgimento della società civile avvenga a partire dal momento della selezione dei candidati, in una logica di competitività e di emulazione tra e dentro gli schieramenti politici, di modo che, in definitiva, si contribuisca fattivamente allo stesso completamento della transizione politica italiana. I cambiamenti che hanno investito il nostro sistema politico e la distanza tra i cittadini ed i loro rappresentanti nelle istituzioni chiedono infatti un cambiamento nel sistema della selezione delle candidature che valorizzi la richiesta di partecipazione politica: le primarie completano questo aspetto della transizione italiana, quello della scelta “diretta” da parte dei cittadini di chi li rappresenterà e governerà, anticipando la partecipazione dei cittadini al momento della selezione dei candidati. I tempi sembrano dunque maturi per una disciplina pubblicistica sui partiti politici, che incentivi le migliori pratiche e disincentivi le spinte oligarchiche che sono sempre connesse ai meccanismi rappresentativi, soprattutto per quanto riguarda le “funzioni aventi rilevanza costituzionale” (Corte costituzionale, ordinanza n. 79 del 2006)[3] che essi svolgono, la più importante delle quali risiede nella selezione dei candidati alle cariche politiche elettive[4].
La necessità di regolare con legge, nel quadro dall’articolo 49 della Costituzione, la vita interna dei partiti politici è stata peraltro sottolineata da numerose proposte presentate al riguardo nel corso degli ultimi anni da parte di esponenti dei più diversi schieramenti politici. Ciononostante, il tema non è stato mai messo all’ordine del giorno delle aule parlamentari. Dunque, nella speranza che la proposta di legge a firma Veltroni et al. (AC 4194)[5] segua un diverso e più rapido iter legislativo, se ne offre di seguito una breve illustrazione:
• L’articolo 1 del disegno di legge stabilisce da subito un vincolo di carattere generale, prevedendo che possono accedere ai rimborsi delle spese per le consultazioni elettorali e a qualsiasi ulteriore eventuale forma di finanziamento esclusivamente i partiti che rispettano i requisiti di democrazia interna previsti dai successivi articoli 2 e 3, e che l’assegnazione della metà dei rimborsi elettorali siano condizionati all’adozione delle primarie per i livelli comunale, provinciale, nazionale ed europeo, ai sensi del successivo articolo 4. Tale previsione viene inoltre estesa alle elezioni regionali, secondo quanto previsto dall’articolo 122 della Costituzione.
• L’articolo 2 entra invece nella natura dei partiti politici, stabilendo che sono associazioni riconosciute dotate di personalità giuridica e che lo statuto del partito e le eventuali modificazioni apportate allo stesso devono essere pubblicati nella Gazzetta Ufficiale.
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[ad]• L’articolo 3 contiene poi il contenuto minimo che tutti gli statuti devono rispettare al fine di garantire degli standard di democraticità accettabili, lasciando ovviamente nella disponibilità dei singoli statuti la definizione degli organi e delle articolazioni organizzative. In particolare, il medesimo articolo prevede inoltre che al fine di favorire la partecipazione attiva dei giovani alla politica, ogni partito debba destinare alla loro formazione una quota pari almeno al 5 per cento dei rimborsi ricevuti per le spese elettorali[6].
• L’articolo 4 si occupa invece della selezione delle candidature, che tra le funzioni svolte dai partiti è certamente quella che maggiormente richiama il loro ruolo pubblico. Si prevede che uno o più partiti tra loro coalizzati possano richiedere all’ufficio elettorale competente di indire elezioni primarie per la selezione dei propri candidati a Sindaco e a Presidente di Provincia, delle proposte di candidatura alla carica di Presidente del Consiglio, e per la selezione dei propri candidati alle assemblee rappresentative di livello comunale, provinciale, nazionale ed europeo per le quali sia prevista l’elezione nell’ambito di collegi uninominali con formula maggioritaria. Successivamente sarà l’ufficio elettorale competente, unitamente ad un collegio dei garanti appositamente costituito, a vigilare sulla regolarità della consultazione primaria. Il disegno di legge presentato distingue tre tipologie di partiti: quelli che intendono limitarsi a regole solo privatistiche e restano fuori dai sistemi di finanziamento pubblico; quelli che si fermano alla soglia minima di garanzie statutarie, precisate dall’articolo 3, e che per questo rinunciano alla metà dei finanziamenti; quelli che decidono di mettersi interamente in gioco con i propri elettori, con la piena contendibilità di tutte le competizioni per le cariche istituzionali monocratiche e nei collegi uninominali maggioritari e che, per questo, accedono all’intero finanziamento (è l’opzione preferenziale a cui tende la regolazione, usando il finanziamento come leva potente per la democraticità). Viene inoltre previsto che hanno diritto di partecipare alla votazione nelle elezioni primarie i cittadini iscritti alle liste elettorali che al momento del voto sottoscrivano di essere elettori del partito politico o della coalizione di partiti che ha promosso la consultazione per la carica a cui la consultazione si riferisce. Ancora, si prevede che siano applicate alle primarie tutte le norme restrittive dell’elettorato attivo e passivo (ineleggibilità, incandidabilità) previste per le corrispondenti elezioni.
• Infine, considerando l’impossibilità di un incremento della tassazione o del debito pubblico ma la necessità di riqualificare la spesa pubblica, l’articolo 5 stabilisce una copertura del disegno di legge che si fonda sulla riduzione dei fondi previsti per i rimborsi, che si basano sul numero degli iscritti alle liste elettorali, scendendo da un euro per ciascuno a 0,90 centesimi. Dato l’incremento finanziario che si avrebbe introducendo le primarie pubbliche, se tutti i partiti facessero primarie, il sistema andrebbe in perfetto equilibrio; “dato che ciò non accadrà, vi saranno risparmi che andranno a beneficio delle finanze pubbliche. Quindi più democrazia e meno costi: una scelta doverosa e qualificante”[7].
[1] Cfr. G. Pasquino, Articolo 49, in Commentario della Costituzione, Bologna, 1992.
[2] Cfr. P. Ridola, Partiti politici, in Enciclopedia del Diritto, Volume XXXII, Milano, 1982.
[3] Corte costituzionale, ordinanza n. 79 del 24 febbraio 2006, testo disponbile all’indirizzo http://www.giurcost.org/decisioni/2006/0079o-06.html.
[4] Cfr. S. Ceccanti, Restituire i partiti ai cittadini, Attuare l’articolo 49 valorizzando le migliori prassi della transizione, in www.scuoladipolitica.it.
[5] Proposta di legge, Veltroni ed altri, Norme sulla democrazia interna dei partiti e sulla disciplina delle elezioni primarie, (AC 4194), http://www.camera.it/126?pdl=4194&ns=2.
[6] A riguardo, sulle pagine del TP, si veda l’articolo di M. Patanè, Tra luci e ombre, la scuola politica del PD.
[7] Cfr. S. Ceccanti, Restituire i partiti ai cittadini,op. cit..