Mestre, 1986, il concerto dei batticarne e delle casalinghe
Sempre per rispondere alla teoria secondo la quale i social hanno cambiato le persone, la società e il modo di esprimersi.
Franco aveva un altro cognome, ma tutti lo chiamavano Franco Rabbia. Era robusto, senza mai una ragazza, e viveva con sua madre. Aveva fatto il militare, ma non era mai riuscito a entrare nei Lagunari. Mio padre e altri suoi ex commilitoni dicevano che era il classico fanatico, parola che negli ambienti militari era una pietra tombale su ogni ambizione. Franco Rabbia era un uomo allegro, ma si ficcava sempre in qualche rissa.
In primavera lavorava nel giardino della madre, ma per il resto dell’anno non faceva niente. Forse la donna aveva un appartamento o un garage in affitto da qualche parte. Non lo so. Avevo sei anni, all’epoca.
Franco Rabbia riempiva cassette di verdura e frutta, poi andava in giro per i ristoranti e le trattorie del centro. Cercava di vendere le primizie in cambio di una bevuta. Gridava. Rideva forte. Cantava.
«Che m’importa se sono povero, ho tutto quello che mi serve per duemila lire» gridava in dialetto. Duemila lire era il prezzo di uno spritz.
Con gli anni s’inventò l’appello.
Diventò il banditore della moralità di Mestre, diffondendo il terrore. La casa di sua madre era sulla Castellana, verso Maerne. Franco ogni mattina si svegliava, prendeva il 21 e arrivava in via Poerio, fermandosi nei bar e ristoranti che gli sembravano promettenti. Camminava pavoneggiandosi. C’era un luccichìo nei suoi occhi. Aveva una barba nera e folta da motociclista. Fumava una pipa corta, e il fumo denso gli si posava sulla sua barba come le nuvole sulle foreste in montagna.
Nel 1986 le massaie di Mestre erano cuoche all’antica. Non si fidavano dei neonati ipermercati, preferivano comprare in macelleria un taglio di carne buona la domenica, e il mercoledì andavano al mercato della carne. Al margine di ogni città di provincia c’è un mattatoio pieno di topi e mosche, circondato da un campo coperto di mucchi d’ossa di vacche. Le donne portavano a casa le bistecche a buon mercato e le posavano su un’asse. Le battevano con un martello. Battevano a tutto andare, un ciack ciack ciack veloce, come se cento picchi fossero all’opera.
Franco Rabbia avanzava lungo piazzale Roma a passo spavaldo: qualche cittadino aveva peccato. Forse un impiegato della banca, o un commerciante. Poteva anche essere stato uno che insegnava alla Vecellio, l’unica scuola elementare, o addirittura una catechista del patronato dietro il Duomo. A Mestre c’erano le forosette che venivano a rimorchiare i ragazzi dell’alta borghesia, ma alcune si accontentavano di far marchette coi genitori dei rampolli. Le chiamavano le “butta zò”. In italiano, butta giù. Gli uomini rispettabili se le portavano in ristoranti mediocri e pretenziosi, lontani dagli sguardi indiscreti. Poi se le ripassavano in qualche stradina oscura, nelle station wagon con cui poi portavano la moglie e i figli in gita la domenica.
Erano anni di Democrazia cristiana, messa alla domenica e poi pasticcini. Quando questi onesti lavoratori avevano finito con le sedicenni, erano quasi sempre preda di sensi di colpa e ripensamenti. Perciò le scaricavano nella stradina buia e scappavano, da cui il nome “butta zò”. Le forosette dovevano camminare lungo il terraglio fino alla fermata dell’autobus, ed è da quest’abitudine che ancora oggi le prostitute vanno a battere lì.
Qualcuno aveva passato la parola a Franco Rabbia. I commessi dei negozi in corso del Popolo, dopo aver spazzato le loro botteghe, adesso pulivano il marciapiede davanti alla porta. Uno di loro alzava la voce. Il nome dell’uomo che la sera prima aveva incontrato segretamente tal Merion[nome di fantasia, NdA] nella strada buia e sterrata del terraglio – quella vicino alla chiesetta sconsacrata e alla caserma, per capirci – veniva passato di bocca in bocca: «Luigi Spano[nome di fantasia, NdA], ti gà presente chi zè? El gavarà 60 anni par gamba!».
Il nome così lanciato navigava per le tranquille strade mattutine di Mestre, e le massaie occupate a battere le bistecche del pranzo interrompevano il loro lavoro per fumare una sigaretta al balcone e scambiarsi gli ultimi gossip sulla borghesia. Aspettavano che la voce di Franco Rabbia rispondesse dalla strada, poi qualcuna, con la scusa di salutarlo, gli avrebbe spifferato la storia.
Era un gioco crudele.
Per Franco Rabbia significava un’infinità di risse, ma non gli importava niente. L’Esercito non lo voleva accettare. C’era qualcosa che non ingranava nei suoi rapporti con la guerra, e lui per vendetta si divertiva. Metteva nei casini qualsiasi uomo camminasse per la strada, e menava come un mulo. Venuta a sapere quella storia s’era caricato di superiorità morale diventando giudice ed esecutore. Peccato che Luigi Spano fosse irreperibile. Era un commerciante di tessuti pregiati[mestiere modificato, NdA] che girava parecchio e spesso dormiva fuori. Ma i commessi e le casalinghe coi loro batticarne erano implacabili. Franco Rabbia era diventato ossessionato dal signor Spano, così ebbe un’idea.
Luca Brasi[nome di fantasia, NdA] era stato in Libano col San Marco a 23 anni, era tornato traumatizzato e mezzo sordo. Nessuno sa cos’aveva fatto o visto lì, ma mio padre lo visitava gratis. Aveva occhi verdissimi, quasi bianchi, e pareva sempre pensare a qualcos’altro. Una volta tornato si era congedato ed era finito a lavorare al porto. Per anni era rimasto solo. Sempre vestito come vestivano i bravi ragazzi, stava nei tavoli delle pizzerie il sabato sera. Mangiava una quattro stagioni da solo senza mai alzare la testa dal tavolo, se non per ringraziare e pagare. Il tempo guarisce le ferite. A furia di alzare la testa, gli occhi di Luca incrociarono quelli di Rosanna, cameriera che non passava inosservata per il volto tempestato di lentiggini, il nasino alla francese e i modi gentili.
In paese dissero che Luca non voleva portare Rosanna a casa sua. Altri che furono solo presi da una passione improvvisa. Sia come sia, i due fidanzati finirono nella stradina buia sul Terraglio, di fianco alla chiesetta sconsacrata, dove di norma finivano le butta zò. Stavano facendo l’amore quando dal buio uscì Franco Rabbia con un sasso. Spaccò il vetro, infilò un braccio dentro, aprì la portiera, afferrò Luca per i capelli e lo strappò fuori dall’auto, colpevole di avere la stessa automobile di Luigi Spano. Era il 1986, e l’anno prima c’era stato l’ultimo delitto del mostro di Firenze. Franco Rabbia voleva solo picchiarlo come picchiava tutti. Rosanna dichiarò di aver sentito Franco dire qualcosa.
Luca no. Era mezzo sordo, era un Lagunare, era spaventato. Quindi gli ruppe il braccio e lo uccise spezzandogli l’osso del collo.
L’accusa puntò sull’eccesso di legittima difesa, ma fu inutile. Un uomo nudo e disarmato e una donna indifesa contro un pregiudicato a mano armata avevano poco dibattito. Le casalinghe continuarono a comprare la carne a basso prezzo, i commessi a spazzare. La madre di Franco Rabbia girava per Maerne e Mestre, gli occhi fuori della testa, e domandava per cos’era morto suo figlio.