2009, il cane ucciso in montagna e la natura umana
Gli psicologi la chiamano Sindrome dell’Imperatore. Gli uomini di montagna non hanno definizioni tanto altisonanti, ma le stesse conclusioni basate sull’esperienza.
L’inverno di qualche anno fa io e Leonora eravamo in una baita in Val di Zoldo, fuori c’era una tempesta di neve e non avevamo alcuna voglia di allontanarci dall’enorme caminetto di pietra e dal profumo di arrosto. Decidemmo di cenare lì, sperando smettesse di nevicare. Alla terza birra attaccammo bottone con il resto della baita, tutti più o meno nella nostra stessa situazione.
Tra loro c’era Marco, uno del luogo che mi raccontò una storia. Era un piacere vederlo mimare le espressioni e interpretare i personaggi. Avevamo lo stomaco pieno, birra gelida, il caminetto che scoppiettava, la bufera fuori e un teatro tutto per noi. Tra le panche, mentre raccontava, ci scambiavamo sorrisi compiaciuti di chi condivide un privilegio. Marco disse che a lui pareva una bella storia perché conteneva contraddizioni. Non tutti i suoi ascoltatori ne erano altrettanto sicuri.
«Dove sarebbero, ‘ste contraddizioni?» domandò qualcuno alla fine.
Marco partì dilungandosi sulla bellezza del cane
Era un setter inglese, un purosangue. Non apparteneva all’uomo che gli aveva sparato, ma a un suo amico. Accadde lì a Zoldo Alto, in un paesino chiamato Pecol. L’uomo che sparò al cane era un avvocato che lì aveva uno chalet, tale Cesare Liberalato [nome di fantasia, NdA]. Era una macchina da guerra, nel suo lavoro. Un segugio famelico, quando si trattava di dare addosso a un pover’uomo o una povera donna trascinati in tribunale. Era un uomo lungo, magro, dagli occhi grigi e freddi, la mascella prominente, e che camminava sbilenco.
Era finito su tutti i giornali per un processo, negli anni ‘90.
Una donna dalle parti di Belluno era vedova con due o tre bambini, e abitava in una di quelle casupole a due piani squadrate con il cortiletto di ghiaia, la strisciolina di terra per la siepe che poi resta sempre incolta e il cancelletto, alto appena un metro. Tirava avanti arrabattandosi tra un lavoretto e l’altro, poi aveva ucciso un uomo. Era un ragazzo, uno di quei giovanotti di provincia tutto testosterone, che le intellettuali di città amano ripassarsi negli alberghi per coglierne l’essenza selvatica prima di lasciarli andare verso l’autodistruzione. Il ragazzo passò davanti al cancello della casa un pomeriggio d’inverno assieme a un amico. Videro la donna che stendeva i panni e fecero qualche battuta. Erano fumati e non la piantavano.
«Oh, ma sei vedova? Peccato che sei vecchia, altrimenti ti davo io un passatempo.»
«Ve ne volete andare?» ribattè lei, e se l’era presa a male.
I bambini che giocavano in cortile si spaventarono. I due ragazzi proseguirono e si fecero più espliciti. La donna prese l’attizzatoio del camino che era fuori a pulire. Gli andò incontro agitandolo. Non aveva intenzione di colpirlo, invece gli prese la tempia con lo spigolo acuminato e lui cadde secco e giallo, col sangue che sgorgava così copioso da arrivare al tombino. Aveva appena fatto vent’anni. La donna fu processata per omicidio e fu Cesare Liberalato a farle ottenere il massimo della pena. Dopo quel processo diventò un idolo del foro, perché la folla ama i teppisti.
Marco spiegò che c’era parecchio da cacciare, in Val di Zoldo. Disse che un buon cane da penna era fondamentale, e che uno di razza è senza prezzo. Rendono la caccia uno spettacolo impareggiabile anche se tu non partecipi, ma guardi e basta. Vedere uomini e cani ben allenati che lavorano insieme, ognuno che capisce l’altro e ci si affida, è magnifico. Fece un paragone con le corse dei cavalli:
«Vedi un cavallo e il fantino che procedono assieme, come fossero una cosa sola. Poi il fantino cade, metti. Il cavallo continua a correre da solo. Corre bene tanto quanto prima, ma non ti dice più niente».
Il cane che fu ucciso, proseguì, era iscritto nel catalogo nazionale dei setter da penna con un nome lungo e aristocratico, ma il padrone lo chiamava Ostia. Apparteneva a un tizio chiamato Franco Franzoni, che possedeva una segheria. Era un tipo peloso, capelluto, piuttosto grasso e basso, aveva perso la moglie e il figlio in un incidente. Trovatosi solo, Franco s’era appassionato ai cani, della razza dei setter inglesi, e ne aveva tre. Tutti ottimi, ma Ostia era il migliore.
Buono di carattere, pelle non troppo grossa, veloce, con un buon naso, di quella razza che non ingrassa mai. Era capace d’annusare un braco di uccelli da più lontano di chiunque altro e con qualunque tempo, di avvicinarsi senza farli levare, di rimanere alla punta e di prendere e portare al padrone gli uccelli morti meglio di qualsiasi altro cane. Era stato allenato alla perfezione, ma era uno di quelli che sanguinano dalla coda. La punta da bianca diventava rossa in soli cinque minuti di lavoro sul campo.
È una cosa comune, pare, tra i purosangue.
L’avvocato era amico di Franco. Gli chiese in prestito Ostia per una giornata di caccia e lo invitò a partecipare, ma Franco non poteva perché aveva una consegna in scadenza. Così Cesare Liberalato se ne andò a caccia da solo, portandosi dietro la sua cagna Lilli e Ostia. Andò in macchina fino a una vallata lunga e stretta in mezzo alle colline della Val di Zoldo, che distava una trentina di chilometri da Pecol.
C’erano alcuni campicelli piatti lungo un ruscello. Le colline scendevano ripide fino all’orlo del ruscello e della strada, poi si aprivano, lasciando libero spazio ai campi. Erano vecchi campi di patate, fagioli e rape; i fattori conoscevano bene Cesare. Aveva già cacciato in quella regione, ma quell’anno ci era venuta poca gente.
Era una giornata fredda e ventosa che minacciava neve. Pessima, per gli uccelli, che sentono arrivare il temporale e si preparano. Restano nei boschi o nei cespugli sui fianchi delle montagne e non li trovi.
Cesare arrivò e fece scendere dall’auto i due cani. La strada in quel punto correva su dalla valle, arrampicandosi lungo il fianco di un dirupo parecchio ripido. Avanzò attraverso i campi, mentre Ostia e Lilli lavoravano bene assieme, tanto da aiutarsi: trovarono tre covate e Cesare abbattè quattro uccelli. L’ultimo branco a cui sparò si trovava in un campicello stretto sull’orlo di un altro dirupo, dove i lauri erano parecchio fitti e gli uccelli, quando ebbe sparato nel gruppo, si dispersero e salirono più in su. Non c’era molta speranza di raggiungerli, ma Liberalato pensò di poterne acchiappare uno o due isolati.
Col fucile in mano attraversò il ruscello e si arrampicò sul dirupo. Aveva appena trovato dove appoggiare il piede e si stava arrampicando, quando vide un uccello alzarsi da destra. Puntò il fucile, ma era troppo distante. Vide il cespuglio da cui era partito muoversi e sparò lì. Un uccello si librò in volo, frullando le ali verso la cima di un cedro a una ventina di metri. Cesare udì un piccolo suono, nello stesso momento. Un leggero guaito, come il verso eccitato di un cucciolo.
Cesare andò avanti per il dirupo, ma non trovò niente. Esasperato, si decise e fischiò per i cani, ma rispose all’appello soltanto Lilli. Dal punto elevato dov’era, vide una piccola sporgenza di roccia proprio sotto il cespuglio dove aveva sparato. C’era Ostia disteso su un’altra sporgenza di roccia, sei metri sotto. Aveva iniziato a nevicare, e il vento ululava. Era facile capire cos’era successo.
Cesare non esitò un attimo. Si mise il fucile in spalla e saltò giù. Ostia non sembrava sanguinare. Aveva due macchioline rosse che spuntavano dal pelo bianco dei fianchi, ma potevano dipendere dalla coda sanguinosa che li aveva frustati lì. Il ruscello che correva lungo la valle era a cento metri più giù. Cesare portò Ostia in braccio, cadendo e ruzzolando attraverso la vegetazione fino alla riva.
Ostia era vivo, ma non riusciva a stare sulle zampe posteriori. Guardava sempre, come fanno i cani in casi simili, negli occhi di Cesare Liberalato. Erano quegli stessi occhi che più di un pover’uomo gli aveva rivolto nelle aule dei tribunali, sperando di trovarci un po’ di misercordia e di comprensione umana, senza trovarne mai. Cesare guadò il ruscello e risalì la collina rischiando d’ammazzarsi, e fermandosi a prendere fiato più d’una volta. Arrivato alla macchina ci trovò Lilli, a cui non sembrava importare granché. Lui era distrutto, e il cuore pareva sul punto di cedere. Strinse i denti. Caricò Ostia sul sedile anteriore e corse dal fattore. Quello guardò il cane, lo tastò e disse che secondo lui si sarebbe ripreso, ma doveva portarlo dal veterinario giù in paese. Cesare sgommò verso Zoldo Alto, ma il cane morì sul sedile vicino a lui durante il tragitto.
Venne buio e nevicava. Finalmente Cesare, con Ostia morto sul sedile, arrivò a casa di Franco Franzoni. Un uomo che aveva solo i suoi cani. Cesare fermò la macchina sulla strada davanti alla casa. Portava in braccio Ostia e lo depose sulla veranda della facciata, vicino al portone. Poi fece un giro nel cortile, camminando nel buio, sotto la neve, cercando di calmarsi. Essendo un avvocato ne aveva viste parecchie in vita sua. Più d’una volta l’avevano minacciato di morte, tra proiettili in busta e lettere minatorie.
Non s’era mai spaventato.
Adesso, però, aveva paura davvero.
Finalmente trovò il coraggio di suonare alla porta. Franco Franzoni uscì.
«Ho sparato al tuo cane» disse Cesare «Eh, ho sparato a Ostia. L’ho ucciso. È morto. Eccolo lì» disse, gettandogli le parole in faccia come se qualcuno gli avesse fatto un torto e si sentisse offeso. Indicò l’angolo buio dove Ostia giaceva morto. La luce dell’interno della casa usciva attraverso la porta aperta, illuminando la scena. Franco non disse una parola, Cesare Liberalato non aggiunse altro: diede un ultimo sguardo all’amico e poi, sempre comportandosi come se fosse offeso, se ne andò.
Si avvicinò alla propria macchina e si allontanò. Nevicava parecchio forte. Sembrava che Cesare volesse uscire dalla vista dell’amico e della casa il più in fretta possibile. Marco finì la storia spiegando com’era incongruente che un uomo del genere fosse insensibile alla vita umana eppure mortificato per quella animale, e avesse reagito in quel modo dopo aver fatto un torto all’amico.
Quando io e Leonora ce ne andammo dalla baita, camminando sulla strada innevata, domandai agli altri del gruppo che cosa ne pensassero. Erano tutti uomini più o meno pratici di cani, cavalli e di uomini.
«Dai, non ha senso» dissi.
«Ce l’ha eccome, ma sei giovane per saperlo» mi disse un uomo sulla cinquantina «Se hai un debito con qualcuno, trovi un modo di odiarlo.»