Non ho la venerazione di Nolan che hanno molti cinefili, ma è indubbiamente un genio. Memento, Dunkirk, Inception, Il cavaliere oscuro mi sono piaciuti da impazzire. The prestige l’avrò rivisto tre o quattro volte e non mi stanca mai, anche per merito dell’estetica da primo ‘900. Interstellar m’ha fatto prudere le mani prima ancora di arrivare al secondo atto e Batman begins, a mio avviso, andrebbe ritirato dal mercato per istigazione al femminicidio.
A ogni modo, nelle pellicole di Nolan il vero protagonista – o al massimo il coprotagonista – è il tempo. Un’ossessione adorabile capace di regalare allo spettatore spettacoli sublimi, ma con un punto debole: gli esseri umani.
E qui si apre un dibattito feroce.
Il cinema oggi ha una grammatica audiovisiva: racconta una storia attraverso suoni e immagini in movimento. Ma il risultato non viene valutato da un robot, bensì dagli esseri umani. Tornando indietro nei secoli, le storie venivano raccontate davanti al fuoco; quelle buone sopravvivevano e si arricchivano di dettagli, le altre sparivano.
Quello che ha permesso la loro sopravvivenza era la capacità dello spettatore di empatizzare con i protagonisti. Soffrire, gioire, arrabbiarsi e vincere con loro. La trama conta molto meno di quanto si pensi. Quel che rende una storia grande sono i personaggi che la popolano, se sono capaci di colpire l’immaginazione collettiva.
Tenet ha un problema di esseri umani.
Non hanno una personalità. Sono meno di manichini. Provate a descrivere Han Solo senza nominare il suo aspetto fisico e avrete solo l’imbarazzo della scelta, tra gli aggettivi. Ora provate a descrivere un personaggio di Tenet senza l’aspetto fisico. Perché dovrebbe interessarmi di loro? Sono tutti bellissimi, ricchissimi, intelligentissimi, viaggiano per i posti più belli e costosi del mondo, si disinteressano della morte dei propri sottoposti, hanno tutto quello che desiderano e il potere di tornare indietro nel tempo.
Non esistono persone brutte, povere, comuni, innocenti, deboli. Non esistono passioni, interessi, paure, difetti, psicologia, sentimenti. Tenet è il brutalismo reso cinema: androidi deambulano in posti sterili di cui all’inizio non m’importa nulla, e dopo che ci hanno rubato un’ora di tempo li vorremmo vedere nuclearizzati. Non ci sono persone, in Tenet. Nemmeno una.
Ci sono il bianco, il nero e la donna
Quest’ultima, che dovrebbe essere quella che più stimola la nostra empatia, è una fotomodella magrissima bianca di 1,80 che vive tra yacht, viaggi e ville ed è da una parte preoccupata per un bambino che non si vede, dall’altra vuole uccidere suo marito che è un crudele trafficante d’armi, eppure l’ha messa dov’è e le garantisce la vita che fa.
Fuori dai cinema del 2020 c’è gente a cui la madre è morta in ospedale senza manco una videochiamata, son stati messi in cassaintegrazione e barricati in case di 40mq con la sola compagnia di un gatto. Kat si fa vedere mentre uccide suo marito mentre va in catamarano. Se avesse un profilo Instagram, i commenti sarebbero un mattatoio.
E i protagonisti maschili sono peggio.
Alternano scatti emotivi senza senso a un’apatia ridicola, sono cloni caratteriali e comportamentali. Cinque secondi per capire e accettare il fatto che i proiettili tornano indietro nel tempo e liquidarlo con una stretta di spalle, tre minuti per capire che una donna vuole bene al proprio bambino.
Tenet, nell’insieme, è come uno psicopatico vede la società. Ne ignora le fondamenta, non ne capisce le priorità e trova trascurabile ciò che per le persone comuni è indispensabile. Fa affidamento su coreografie allo stato dell’arte, una fotografia spettacolare e cerca di compensare il problema che dentro quegli abiti stupendi non c’è nessuno. La trama più bella del mondo non può competere con il personaggio più bello del mondo.
Avrei preferito rivedere Pacific rim, piuttosto di questa roba.
Ma forse esagero.