La Spezia è da sempre un luogo strategico fondamentale, per l’Italia. Il Varignano, oggi casa degli incursori della Marina, ha una lunghissima storia che arriva fino all’impero romano. Poche frasi, nell’ambiente militare, fanno effetto come dire “al Varignano”. Per chi mastica di storia militare è sinonimo di officine oscure, eroi subacquei, operazioni segrete e addestramenti epici di cui molto si vocifera e (quasi) mai si conferma.
Si dice che un incursore di marina, per essere leader di squadra, debba gareggiare con gli altri nella circumnavigazione a nuoto dell’isola di Palmaria. Mentre è vero che i neobrevettati incursori, a Natale, devono uscire dalla base nottetempo, segare un albero, portarlo dentro alla sala conferenze e addobbarlo; il tutto senza farsi beccare da sentinelle e sistemi d’allarme. E le sentinelle stanno attente, perché o i neobrevettati o loro verranno puniti.
A Spezia ci sono tanti segreti sepolti. E dico letteralmente.
Gli spezzini, nel corso degli anni, si sono abituati a convivere con la Marina e con quello che gli ruota attorno. Percorrendo la strada napoleonica, sul rettilineo dell’Acquasanta in direzione di Portovenere, sulla destra si vede un’enorme portone nella montagna. Gli anziani raccontano che era lì fin dalla seconda guerra mondiale; ricordano che durante il fascismo, passando davanti all’ingresso, si vedevano soldati tedeschi, guardiani della RSI e a volte anche uomini delle SS.
Cosa ci combinassero dentro non è mai stato detto
Però è probabile fossero “cloni” delle fabbriche di armi. In caso i bombardamenti alleati distruggessero le sedi esterne, gli operai avrebbero potuto continuare la produzione sottoterra. Qualunque cosa fosse, poi fu riconvertita in officine protette nel 1950 per produrre energia in caso di bombardamento nucleare. Ha continuato a essere operativa molto tempo, attraversando boom economico, Dolce vita, anni di piombo, anni ’80, finché gli interruttori sono stati spenti alle 17.19 di mercoledì 22 aprile 1992.
La data così precisa la sappiamo perché è rimasta sull’orologio del quadro comandi, che è stato visto dopo quasi trent’anni da uno storico, Stefano Danese, e il direttore del museo navale Silvano Benedetti. Lo fecero con l’autorizzazione della Marina militare che li scortò all’interno con apposite protezioni, perché il bunker è letteralmente circondato di amianto.
All’interno di quei corridoio hanno scattato 300 fotografie e pubblicato documenti desecretati, tra cui – pare – ci fosse anche il primo prototipo del Sarchiapone. Il nome viene da un vecchio sketch di Walter Chiari, ma il Sarchiapone era molto di più: un radar, progettato a cavallo tra i ’70 e gli ’80, capace di rilevare i sommergibili.
A distanza di 28 anni, del Sarchiapone si sa pochissimo
Era un’invenzione tutta italiana con una tecnologia talmente innovativa da essere secretata ai massimi livelli. Fece grande scalpore, durante un’esercitazione militare NATO, che la nave Alpino fosse in grado di vedere decollare gli aerei della portaerei Kennedy a 350 miglia di distanza. L’Italia è un paese strano che adora raccontarsi mediocre mentre in silenzio crea capolavori ineguagliabili, ma che spesso deve tenere segreti.
Quest’estate, due esploratori inglesi ci si sono intrufolati girando un video che la Marina non ha fatto rimuovere, ed è possibile vedere qui. Il problema è che l’amianto all’interno è stato corroso dalla salsedine, e i due esploratori sono entrati senza alcuna protezione. Di solito c’è un motivo se alcuni posti vengono blindati; da quando il video è iniziato a circolare, degli operai hanno provveduto a saldarne l’ingresso.
Ma quel bunker è solo uno dei tanti che popolano il sottosuolo italiano
Da appassionato di Storia – e di storie – è difficile restare lucidi davanti a certe immagini, e soprattutto a certe date. Forse perché immaginare uomini e donne che lavorano sottoterra mentre noi, qui sopra, conduciamo un’esistenza inconsapevole, è strano. È il bellissimo titolo (del bellissimo film) Le vite degli altri applicato a noi. Il 3 luglio 1990 qualcuno, lì sotto, guardava la finale contro l’Argentina.
Non so chi o facendo cosa. Non so se è ancora vivo o meno. Ma immagino sia una persona comune, con una famiglia comune, che per chissà quanti anni è sceso sottoterra a lavorare su un radar unico al mondo, e poi se n’è andato fermando un orologio e spegnendo le luci come un qualunque impiegato. Noi, lì fuori, affrontavamo Tangentopoli.