La parola “meritocrazia” è forse una delle più usate negli ambienti intellettuali e opinionisti. È un concetto talmente infido che arriva a intaccare anche le provincie e le periferie, entra nelle case popolari e nei centri sociali, striscia ovunque. Perché ha questa magnifica facciata di rispettabilità.
Chi lavora e s’impegna, è giusto che ottenga risultati.
Peccato sia il cavallo di Troia per giustificare qualunque forma di prevaricazione e menefreghismo, il tutto senza nemmeno sporcarsi le mani. Perché è questo che sottintende la meritocrazia: se non hai qualcosa, non te la sei meritata. Quindi non devo fare nulla per aiutarti o per cambiare le cose, quindi chi vuole cambiare le cose è giusto venga soppresso.
È un sottinteso sottile e affilato con cui moltissimi opinionisti, ufficialmente di sinistra, promulgano un’ideologia perfettamente nazista. Quando li si mette di fronte agli achei nascosti nel cavallo, lo si fa sempre con iperboli: ma allora chi nasce in Somalia non si merita niente? Invece, per dimostrare l’abominio, bisogna prendere un esempio molto più vicino.
Bisogna prendere le provincie di qualsiasi città. Un/a giovane mente che sboccia a Mestre riceve l’educazione primaria in famiglie dove il livello di discussioni/precetti spazia dal bestemmiare contro l’arbitro all’insultare la moglie. Poi arriva in scuole elementari con insegnanti di dubbia qualità e si rapporta a compagni con le stesse identiche famiglie.
Adesso paragoniamolo al figlio di laureati che nasce a Brera o ai Parioli.
A casa girano libri, Internet è controllato, a tavola ci sono discussioni stimolanti. La domanda che le scuole ricevono più spesso è “ci sono stranieri in classe?”, tanto che alcune hanno la malaugurata idea di scriverlo sul proprio sito. I bambini interagiscono tra figli di famiglie simili, e questo da un lato gli permette di avere una mente aperta, dall’altro di uscire con un bagaglio di connessioni sociali che fa la differenza molto più del titolo di studio.
Perché se ho bisogno di far lavorare qualcuno, in rubrica ho già dei candidati che conosco e di cui mi fido. Il loro merito è di essere conosciuti. Quando si fa quest’obiezione ai fanatici della meritocrazia, tutti si aggrappano alla sacra parola: banalità.
“Queste sono banalità” è un’altra frase sottile: significa che sono discorsi già fatti e quindi – implica – non vale la pena proseguire la conversazione. Ma a parte che lì fuori si continua a fare figli e un discorso “banale” per uno di 40 potrebbe non esserlo affatto per uno di 16, si vuole semplicemente mettere a tacere quello che nei fatti sono gli achei nel cavallo di Troia. Parlare di meritocrazia quando va bene è ingenuo, quando va male è un tentativo di legittimare l’indolenza davanti a privilegi e handicap che oggi, anche per merito di Internet, non si può più fingere che non esistano.
Nessuno si ricorda più “il piccolo Simone” che affronta i fasci a Torre Maura, commentato dagli opinionisti con un misto disgustoso di superiorità e compassione, manco fosse un animale in un documentario della BBC. Oooh, guardate com’è tenero il gorillino che si oppone alle tigri. Poi gli hanno dato anche un premio, così tutti possono alzare le mani: hey, gli abbiamo dato un premio, se l’è meritato, ciao e grazie.
So che immaginare famiglie funzionali e scuole migliori è un’utopia, ma almeno evitiamo di parlare di meritocrazia, se siamo Bolt alle paraolimpiadi.