Responsabilità medica: chi cura non può garantire il buon risultato. L’ordinanza
Recentemente la Corte di Cassazione è intervenuta con un interessante provvedimento in tema di responsabilità medica. Con esso ha stabilito che il paziente ha certamente diritto alle cure e alle prestazioni compiute da figure competenti, ma non anche può pretendere che il dottore gli garantisca al 100% il buon esito del trattamento. Vediamo più nel dettaglio.
Responsabilità medica: l’ordinanza della Cassazione fa chiarezza
Il principio è in pratica identico a quello dei rapporti di mandato, che legano cliente ed avvocato: chi si fa difendere in giudizio, non può esigere di avere la garanzia sulla vittoria finale in causa. Infatti – in linea generale – nei rapporti cd. professionali la prestazione non può assicurare in modo pieno il risultato sperato dal creditore, sebbene la prestazione in sé sia esente da errori o sviste, e questo principio senza alcun dubbio è applicabile anche ai casi in cui il professionista in questione sia un medico. In buona sostanza, occorre sempre distinguere tra esecuzione della prestazione sanitaria e risultato finale della cure, interventi o trattamenti.
Il provvedimento di riferimento è l’ordinanza n. 26905 del 2020 della Suprema Corte, che chiarisce che anche per i rapporti medico-paziente non è utilizzabile il principio per il quale il creditore-danneggiato ha diritto di agire per il risarcimento del danno, allegando l’inadempimento del debitore. Pertanto, il dottore – sulla scorta di ciò – non potrebbe essere condannato per motivi legati alla responsabilità medica.
La prestazione non può garantire il risultato
Tecnicamente parlando, parlare di (possibile) responsabilità medica significa prendere in considerazione le cosiddette obbligazioni professionali di diligenza, le quali si caratterizzano sotto un doppio aspetto:
- l’interesse del paziente al ripristino, al miglioramento o al non peggioramento delle condizioni di salute;
- l’interesse strumentale allo svolgimento della prestazione, rispettando tutte le regole della scienza medica.
Per cogliere il perchè della pronuncia della Cassazione, il ragionamento da seguire è il seguente: il paziente può contestare, in un giudizio in tema di responsabilità medica, esclusivamente la sussistenza di una condotta del medico, strettamente correlata all’evento lesivo (ad es. peggioramento dello stato di salute dopo l’intervento). Insomma, il paziente deve dimostrare il mancato perseguimento dell’interesse strumentale e conforme alle regole della medicina, e per farlo deve provare il nesso di causalità materiale tra il maldestro o errato intervento del dottore e il danno alla salute patito.
Soltanto per questa via si può provare un inadempimento da parte del medico, nell’ambito del rapporto professionale con il cliente. In altre parole, la lesione dell’interesse primario va dimostrata sul piano dei mezzi e delle conoscenze usate dal medico e delle attività da lui compiute durante le cure, i trattamenti o gli interventi: non è possibile invece fondare la responsabilità medica soltanto sul mancato raggiungimento del risultato, giacchè il tipo di prestazione professionale non garantisce e non può assicurare la realizzazione del risultato primario.
Il nesso di causalità è cruciale
D’altronde, come ricordato sopra, si tratta di obbligazioni di diligenza professionale le quali – per loro natura – impongono al medico ‘soltanto’ di agire rispettando tutti i principi medici e le regole pratiche di riferimento, ma non gli impongono – al contempo – anche il dovere di garantire il buon esito dell’attività compiuta.
Concludendo, il medico citato in giudizio potrà tuttavia difendersi dalle accuse, facendo riferimento ad un diverso nesso di causalità – che dovrà provare – ovvero quello tra la causa esterna alternativa, imprevedibile e inevitabile e l’evento lesivo per la salute del paziente. Dimostrando detta causa, potrà evitare di essere condannato per responsabilità medica.
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