Raggiungere Rialto è piuttosto complicato. Bisogna farsi largo tra branchi di turisti con cappelli di plastica e magliette I LOVE VENICE, zaini strabordanti bottiglie, occhiali da sole, macchine fotografiche sospese a mezz’aria, coppiette che all’improvviso si fermano in mezzo alla strada come colti da paresi mentre aspettano il compagno scatti la foto.
Il sottoportico di Ruga dei Oresi offre riparo al sole dell’estate e alla neve che cade fitta d’inverno. A destra ci sono gioiellerie, pelletterie, boutique di alta moda e chincaglieria da turisti spacciata per vetro di Murano. A sinistra, bancarelle fin troppo dignitose offrono un carnevale di cravatte, cartoline, magliette a righe blu o rosse, boat hat larghi da gondolieri.
Ogni cosa distrae l’occhio da case ed edifici tra i più vecchi di Venezia.
Vicoli oscuri che si perdono in minuscoli campielli o incontrano portoni di legno gravato da secoli di salsedine e umidità, senza che la luce del sole li abbia mai sfiorati. Se ci entri, gli androni hanno quell’odore penetrante di salsedine e nidi di rondine, e sono gelidi anche d’estate.
Fuori c’è il mondo. Un fiume costante di ogni nazionalità e provenienza, tutti rigorosamente vestiti da imbecilli, che rimbalzano da un monumento all’altro, più interessati a fotografarcisi davanti che a capirli. Anche per questo, la chiesa di San Giacomo e la sua piazzetta vengono snobbati. Eppure, di fronte alla chiesa, c’è una minuscola statua protetta da una ringhiera modesta e arrugginita.
È il gobbo di Rialto, che ha preso più baci di tutte le cortigiane che hanno popolato Venezia.
Scolpito nel primo ‘500, rappresenta un gobbo chino sotto un peso spaventoso: è il peso della colpa. Fin dall’inizio della Serenissima, i ladri venivano puniti in un modo semplice e brutale. In piazza San Marco venivano spogliati completamente davanti a Marco e Todaro, poi fustigati e frustati dalla folla mentre correvano verso il gobbo, che in cambio di un bacio si faceva carico delle colpe del ladro, terminando il supplizio.
Non tutti ce la facevano. Molti incespicavano o svenivano per il dolore, e venivano massacrati a morte. Il tragitto con maggiori probabilità di successo era quello che partiva da calle della merceria. Si dovevano fare più curve e c’erano più angoli, che impedivano alla folla di sistemarsi in maniera ordinata. Raggiunta la Salizzada iniziava il momento peggiore, cioè il ponte di Rialto.
Allora come oggi, erano scalinate di marmo su cui la folla si poteva sistemare in perfetto ordine, ed era il luogo ideale per gli sgambetti. Gettarsi in acqua e farla a nuoto non era una buona idea, perché poi bisognava guadagnare riva del Vin, carica di popolani assetati di sangue e divertimento. Toccava concentrarsi e stringere i denti; fatta Ruga dei Oresi si finiva in mezzo al mercato, nudi e sanguinanti, fino ad abbracciare e baciare il gobbo.
A quel punto si diventava intoccabili.
Alla Chiesa questa pratica non piaceva perché sapeva di paganesimo, ma era consapevole quanto il popolo fosse legato alle proprie tradizioni. Così una croce di ferro venne incastonata in una colonna vicino al gobbo – subito rinominata “croce dei frustài” – in modo da dare un significato religioso a una tradizione che di religioso aveva ben poco. La croce è scomparsa nei primi del ‘700, e si dice faccia bella mostra nella casa di una famiglia veneziana di lunga tradizione ladresca.
Ma naturalmente, di questo non ci sono prove.