Alla fine della Grande guerra le truppe russe sono contaminate dal bolscevismo. Intere trincee si rifiutano di combattere, uccidono gli ufficiali, disertano e si danno al banditismo. Altre depongono le armi e stringono amicizia con il nemico austroungarico.
Nessuno, ai vertici, poteva immaginare niente del genere.
Erano stati sordi alle grida del popolo e degli affamati, avevano sedato le proteste a fucilate o sotto le spade dei cosacchi, e lo zar Nicola II non era mai stato né un grande sovrano, né un grande stratega. Nel 1917 l’esercito russo è sul punto di implodere, quando a palazzo si presenta la prima soldatessa ufficiale, Maria “Yasha” Bochkareva. Un donnone massiccio domanda a Kerensky di formare un battaglione di sole donne.
Non devono vincere la guerra. Devono solo combattere per spingere a riprendere le armi.
Kerensky e i vertici militari non hanno niente da perdere e le danno l’autorizzazione. Nasce il Battaglione femminile della morte, identificato da due linee rosse sopra due linee nere. Significa morte prima del disonore. Il bando d’arruolamento è scritto dalla Bochkareva in persona:
«Cittadini uomini e donne… nostra madre sta morendo. Nostra madre è la Russia. Voglio salvarla. Voglio donne dal cuore di puro cristallo, con l’anima immacolata e con grandi ideali. Con donne simili disposte a immolarsi, voi uomini capirete il vostro dovere in queste ore drammatiche».
La Russia è piena di mogli, fidanzate e sorelle che hanno visto i propri uomini morire in trincea, e non hanno modo di sostenersi. Spinte dall’odio, dalla disperazione o dall’idealismo, si arruolano. Gli uffici d’arruolamento hanno code lunghe chilometri di ragazze la cui età media è 16 anni. Alcune ne hanno 13. La Bochkareva opera una selezione fisica e psicologica severa, alla fine ne sceglie 250. Molte si arruolano con pseudonimi per non portare disonore alle proprie famiglie, che a quella notizia le rinnegano – nel caso delle aristocratiche – oppure temono vendette.
I loro nomi sono quasi tutti andati perduti.
Vengono addestrate per tre mesi da lei in persona, mentre attorno a loro l’ostilità degli uomini cresce. Le contadine hanno resistenza, forza fisica e capacità di adattamento; le aristocratiche hanno la forza di un pettirosso, ma due mostrano talento nel tiro a lunga distanza. Quando le caricano sul treno dirette a Smorgon, in Bielorussia, devono dormire nel vagone dandosi il turno per tenere le maniglie chiuse.
Arrivate al fronte ricevono insulti di ogni tipo.
Le trincee sono infestate di disfattisti, tentativi di sedizione e ribellione. Si sono formati comitati che vogliono spodestare gli ufficiali, ci sono fucilazioni e insurrezioni quotidiane. Il 9 luglio 1917 l’aria profuma di pepe e ananas e c’è uno strano silenzio. Poi dal cielo cominciano a piovere fusti che rilasciano un gas giallastro.
I russi sapevano del pericolo, ma non l’avevano mai visto in funzione. Come i francesi, credono si tratti solo di una cortina fumogena, finché iniziano a lamentare dolori al petto e bruciore in gola. Le maschere antigas sono state sistemate sotto casse di munizioni e viveri. Perdono tempo prezioso. Quando suona il fischietto che ordina l’assalto, le uniche a uscire sono le soldatesse.
250 ragazzine corrono incontro alle mitragliatrici austroungariche sotto gli occhi sbigottiti degli uomini.
Di queste, 200 muoiono subito, le altre 50 piombano nelle trincee nemiche, dove inizia una carneficina all’arma bianca. Gli uomini russi si decidono e vanno all’assalto, riuscendo a prendere la trincea nemica. Le sopravvissute sono trasportate negli ospedali militari. Molte sono traumatizzate o mutilate. Ricevono tutte la croce di San Giorgio e vengono congedate, tranne le due cecchine.
Una è Zoya Smirnova, di 17 anni. Era scappata da un collegio femminile per arruolarsi con il nome di Stepan. La seconda si chiama Nadezda Antoninovich Durova, ma è uno pseudonimo preso da una donna soldato del 1800. Il suo vero nome non verrà mai reso noto. Zoya e Nadezda chiedono di tornare a combattere. Il Battaglione della morte è finito, e ne viene formato un secondo.
Stavolta, però, le reclute scarseggiano.
La voce di cosa succede al fronte si è sparsa, e le uniche disposte ad arruolarsi sono donne “di malaffare”, tanto che il secondo battaglione della morte, negli ambienti militari, viene chiamato “il battaglione delle put*ane”. Non vengono mandate al fronte. Ormai la Russia sta collassando, e servono più a San Pietroburgo per mantenere l’ordine pubblico. Sono anche l’unico battaglione di cui ci si può ancora fidare. Vengono schierate a guardia del palazzo d’inverno assieme a un migliaio di cadetti dell’accademia navale, che tagliano la corda appena inizia l’assalto dei bolscevichi.
La presa di palazzo d’inverno fu una formalità, non un’azione di guerra.
I comunisti avevano fatto il colpo di Stato in maniera intelligente molto prima. Si erano infiltrati nei gangli di San Pietroburgo: telefoni, telegrafi, elettricità, caserme, era tutto già in mano loro. Dentro il palazzo d’inverno restavano una decina di politici che a lume di candela scrivevano leggi per uno Stato che non esisteva più. Le guardie aprirono le porte e fecero entrare i bolscevichi, che devastarono e saccheggiarono tutto, accanendosi sulle soldatesse.
Zoya muore lì, stuprata e uccisa assieme alle altre.
Nadezda, ferita per la seconda volta, scappa in una San Pietroburgo che sprofonda nell’anarchia. Le stazioni chiudono, tram e carrozze vengono controllate, le case vengono assaltate. Moribonda, si rifugia sull’unico treno che sta lasciando San Pietroburgo, carico di prigionieri austroungarici – cioè quelli che ha ucciso a Smorgon – diretti chissà dove.