Mar del Plata, quando in Argentina il regime uccise i rugbisti
Il 22 novembre per l’Argentina è un giorno importante: si vota per eleggere il presidente della Repubblica. Tra gli argentini chiamati al voto ci sarà anche Raul Barandiaran. Il nome, ai più, non dirà nulla. Barandiaran è il sopravvissuto della strage dei 17 giocatori del La Plata Rugby Club. Uno scudetto del Seven, l’ovale a 7, disciplina che troverà spazio anche nelle prossime Olimpiadi di Rio.
I fatti risalgono alla seconda metà degli anni ’70. Era l’Argentina del terrore; quella dei 30 mila desaparecidos. I giocatori uccisi erano militanti della sinistra politica. Barandiaran, il sopravvissuto, racconta il tragico evento: “Raccontare mi pesa, pensarci no” ammette.
Da rugbista, parte dal campo: “Il rugby è un esercizio centenario dove hanno ancora un senso vocaboli caduti in disuso in altre discipline: educazione, sforzo, rispetto, silenzio, lavoro, altruismo e soprattutto umiltà. Con H maiuscola come i pali del nostro sport. La nostra squadra è stata sempre questo, però in qualcosa no: in alcuni momenti non abbiamo saputo stare zitti”.
Il 24 marzo del 1976 un colpo di Stato dava inizio alla dittatura del generale Videla: “Sapevamo ciò che stava accadendo – racconta l’architetto Barandiaran – però i nostri 20 o 23 anni di quell’epoca ci facevano sentire invulnerabili. Percepivamo i pericoli che la militanza implicava, però non si arrivava a comprendere che ‘eliminare la sovversione’ significava eliminare una forma di pensare”. Le sparizioni e gli omicidi durarono fino al 1979.
Gli oppositori vennero sterminati. Hernan Roca, già giocatore di prima divisione, fu tra i primi ad essere assassinato. Stessa sorte toccò ad Otilio Pascua, amico fraterno di Barandiaran e agli altri giocatori del La Plata Rugby Club. Cinque di loro, Roca e Pascua compresi, avevano militato in prima divisione: Santiago Sanchez Viamonte, Mariano Montequin e Pablo Balut gli altri tre.
“Non riesco a ricordare le loro voci, e questo mi fa male. A volte quando voglio parlare con qualcuno di un tema personale, per un attimo li cerco immaginandomi le chiacchierate di una volta. E mi ricordo di quanto ho perduto”, dice Barandiaran.
Lui si salvò grazie ad una tournée in Europa: “Quel viaggio durato 40 giorni, fra il febbraio e l’aprile del 1975, mi permise di prendere distanza da quello che stava succedendo. Potrei dire che mi salvò la vita: a partire da allora vissi tutto con più precauzioni”.
“La paura non è mai sparita, con gli anni che passano però si attenua e impari a conviverci. All’inizio era insopportabile, ha marcato la mia gioventù”, ammette Barandiaran. Il suo racconto, non privo di difficoltà, ha stato raccolto in un libro, Mar del Plata, da Claudio Fava, giornalista, scrittore e sceneggiatore (I cento passi di Marco Tullio Giordana). Un libro diventato spettacolo teatrale in scena al Piccolo Eliseo di Roma fino al 22 novembre.
Il romanzo di Fava non è meramente storiografico della vicenda dei 17 rugbisti: “Ho deciso di ricostruire una storia in cui i nomi e i personaggi fossero di fantasia allo scopo di non riproporre un semplice ‘documento’, ma piuttosto usare a pretesto lo sport per denunciare la tragedia dei desaparecidos”.
“Ai tempi noi giovani italiani sapevamo tutto dei crimini del Cile sotto la dittatura di Pinochet, ma delle atrocità dell’Argentina di Videla c’era arrivato poco o niente. Ne avevano maggiore coscienza gli olandesi, il grande Johan Cruijff aveva scelto di non andare al Mundial e i suoi compagni di nazionale al termine della finale persa con gli argentini si rifiutarono di stringere la mano ai militari”, racconta Fava a L’Avvenire.
Se la storia dei 17 rugbisti e degli altri sportivi uccisi è tornata alla luce, gran parte del merito va agli articoli del giornalista e scrittore argentino Gustavo Veiga. Una storia che Fava paragona a quella delle vittime della Mafia: “I generali argentini o i tiranni di qualsiasi stato, così come i mafiosi, abusano con la violenza, con la negazione di ogni regola, con la menzogna, e chi sta dalla parte della giustizia a questa forza maligna oppone quella della verità, si difende vivendo con la schiena dritta. Per i rugbisti del La Plata questo significò giocare la propria partita fino in fondo, entrando in campo al grido di ‘libertà’”.
Ma lo scrittore compie anche un altro parallelismo: “Il La Plata giocando lo stesso e vincendo, mentre perde, ammazzati uno a uno, i suoi giocatori, non viene meno allo spirito di lealtà e al rispetto assoluto delle regole che è l’anima del rugby. Così come gli uomini della scorta di Borsellino rinunciarono al trasferimento e alle ferie pur di restare fedeli al dovere e al loro profondo senso di responsabilità. Nessuno di questi ragazzi vuole morire, ma nessuno se la sente di venir meno all’impegno preso”.
L’ultimo pensiero dell’intervista che Fava ha rilasciato a L’Avvenire non può che essere per chi di quei fatti conserva la memoria: “Raul con pudore custodisce la memoria, coltivando quel senso di colpa tipico di tutti quelli che sono scampati allo sterminio, al lager, alla mafia. Lui sa che è stata la forza dei vent’anni a far paura ai dittatori di ieri e anche a quelli di oggi”.