Goal Economy, finanza e calcio: intervista a Marco Bellinazzo
Marco Bellinazzo, giornalista finanziario, editorialista del “Sole 24 Ore” e autore di un frequentato blog, “Calcio e Finanza”, sul business del calcio.
È di recente uscita il suo libro sull’argomento dal titolo: “Goal economy, come la finanza globale ha trasformato il calcio”, edito da Baldini e Castoldi. Un’ esposizione puntuale e ricca di dati accompagna le quasi 600 pagine del volume che offre una fotografia di come il calcio sia diventato un business planetario. Contratti di sponsorizzazione milionari, investimenti infrastrutturali, fondi di investimento, diritti TV. Quello che il libro mostra è un mondo che si trova dietro il rettangolo di gioco e costituisce un giro di affari mondiale che si estende ben oltre le culle tradizionali del calcio, e interessa i nuovi attori emersi nella globalizzazione. Verrebbe da dire il calcio piace proprio a tutti.
- Dottor. Bellinazzo, la prima riflessione che viene naturale leggendo i primi capitoli del suo libro è: siamo stati Italiani anche nella gestione del calcio? Ovvero, mecenatismo imprenditoriale, pochi investimenti e norme poco lungimiranti, così abbiamo disperso quella che lei definisce “l’età dell’oro della serie A”?
Si, è possibile inquadrarli in questo modo. Più in generale è possibile dire che è mancata la capacità di trasformare la gestione di questo sport, che è stata di tipo patrimoniale e illogica, legata a dividendi di tipo politico o sociale, di certo non economico. Questo tipo di gestione è proseguita anche quando in altri paesi le società si basavano sempre più su una gestione aziendalistica. Anche quando ci sono stati numerosi introiti derivanti dai diritti televisivi, spesso venivano usati per ingrassare le rose e comprare giocatori in un’ottica miope e di breve periodo invece di fare investimenti su stadi ed impianti, come accaduto in Premier ed in Bundesliga.
- Rimanendo in tema. Quali sono gli elementi salienti che contraddistinguono il modello inglese e quello tedesco? E quali aspetti di tali modelli preferisce come modello guida per lo sviluppo del calcio italiano?
In entrambi i paesi sono stati fatti importanti investimenti per modificare il modello di gestione del calcio. I cambiamenti hanno tuttavia rispecchiato il DNA del modello di sviluppo di tali paesi, e da qui le differenze. La Premier ha puntato sull’internazionalizzazione a livello di proprietà, del brand e dei diritti tv. La Germania è cresciuta dall’interno, basandosi sulla sinergia strettissima tra comunità locali, la grande impresa e i club. Il denominatore comune rimangono in entrambi i casi gli investimenti infrastrutturali per gli stadi ed i centri sportivi che sono il motore fondamentale di questo tipo di cambiamento. Quello importabile in Italia, dunque, è proprio quest’ultimo aspetto. L’investimento in strutture sportive è la base per poi far crescere le varie linee di business anche se è quello più costoso in termini economici.
- Secondo lei, le quote associative e più in generale la partecipazione dei tifosi alla gestione dei club possono essere un sistema non repressivo ma inclusivo per la gestione del tifo?
Certo, io sono sempre stato favorevole al modello partecipativo. È necessario farlo in modo che rispecchi quelle che sono le caratteristiche del calcio in Italia. È innegabile che un coinvolgimento dei tifosi, secondo le forme giuridiche più adatte al caso concreto, è indispensabile per rompere il legame tra il tifo più violento e le società sportive. Non può essere questa l’unica soluzione, tuttavia bisogna partire da questo tipo di soluzioni. Forme sperimentate, come quelle del rappresentante dei tifosi, figura intermedia tra le società e la tifoseria, si sono tuttavia mostrate inefficaci. Non c’è un’unica soluzione ma varie soluzioni applicabili. L’organizzazione di fondazioni o associazioni con parte di capitale nelle squadre e rappresentanza in cda con deleghe specifiche e competenze su determinati ambiti. Non sono le formule il problema ma la volontà concreta per attuarle.
- Brasile Ucraina e Qatar si sono contraddistinte per scandali e la poco trasparente organizzazione dei mondiali. Non è doveroso vigilare in modo più serrato su queste pratiche? Magari cercando di vincolare le esternalità positive, che questi eventi portano, a maggiori benefici per le popolazioni di tali paesi?
Sarebbe certamente auspicabile. Mettendo da parte per un attimo le malversazioni e gli scandali recentissimi che hanno interessato Blatter e Platini, la gestione della FIFA da parte di Blatter ha prodotto utili per l’organizzazione negli ultimi quattro anni con un fatturato di cinque miliardi di dollari e riserve per un miliardo e mezzo e sarebbe certamente un segnale rivoluzionario se una parte di tali utili fosse investito in iniziative a carattere sociale. Potrebbe essere un segnale di forte rinnovamento intraprendere iniziative di tal tipo soprattutto in seguito alle cronache che ne hanno riguardato i vertici. Non dimentichiamoci tuttavia che parliamo di un ente privato, dunque impossibilitato a modificare legislazioni commerciali nazionali o sovranazionali. Certo è auspicabile una maggiore vigilanza nell’organizzazione di questi eventi anche se anche il controllo da parte della FIFA rimane una questione complessa in quanto mancano le capacità di imporsi sulle legislazioni statali.
- Una domanda che viene naturale vista le recentissime cronache riguardanti il terrorismo. Oligarchi, Emiri, petroldollari e spesso fonti di finanziamento poco chiare. Chi finanzia le società di calcio europee? Sono gli stessi che dall’altra parte differenziano le attività di investimento con attività legate al terrorismo?
È un collegamento che oggettivamente è difficile da dimostrare. È vero che gli investimenti stranieri, si pensi al Quatar, nel calcio, ma soprattutto attraverso il calcio, sono diventati dei driver di consenso a livello geopolitico e hanno cambiato il ruolo del paese a livello internazionale permettendo di accreditarlo rispetto al sistema occidentale. Non a caso proprio il Quatar è uno dei paesi più controversi per le politiche che attua riguardo alla lotta al terrorismo. La stessa organizzazione dei mondiali in Quatar 2022 pone delle questioni circa la sicurezza dell’evento, questioni geopolitiche e diplomatiche. Sarà molto interessante seguire quello che accadrà a fine febbraio per l’elezione del nuovo presidente FiFA che a scanso di clamorose sorprese sarà proveniente dall’area mediorientale.
- Riguardo i recenti fatti di cronaca che riguardano i vertici del calcio mondiale, mi sembra di capire che lei non boccia la gestione FIFA di Blatter?
A Blatter si devono meriti oggettivi. Quello di aver allargato il circuito calcio per esempio con le assegnazioni dei i mondiali in Korea e Giappone, in Sud Africa piuttosto che in Quatar e Russia. Tale sistema è stato tuttavia alimentato tramite tangenti e corruzione di funzionari. Sebbene sia difficile, bisogna provare a tenere separato l’ambito prettamente penale. La gestione Blatter ha avuto comunque il merito di ampliare in modo notevole l’utenza del calcio. La gestione economica ha prodotto un passaggio da 70 milioni di riserve nel 2003 ad un miliardo e mezzo. Questo merito distingue la gestione Blatter da quella del suo predecessore Havelange, anche se entrambe hanno visto terminare il loro mandato con scandali e procedimenti giudiziari. Questo aspetto non è da sottovalutare e ci deve far pensare ad un cambio di modello gestionale della FIFA, e più in generale della governance del calcio, che da Onlus è diventata una azienda. La mancanza di controlli esterni su un fatturato ormai importante è uno degli aspetti centrali e causa del ripetersi di questi scandali.
Giuseppe Simone