Lo scorso 13 febbraio il settimanale inglese “The Economist” ha dedicato un articolo al rugby italiano e in particolare a Sergio Parisse – considerato dai più come uno dei migliori numeri 8 di tutti i tempi.
“Pur essendo un talento unico, che unisce la potenza del grande avanti, l’abilità nel controllo di palla del centro e il passo maestoso dell’ala, ha la sfortuna di giocare per l’Italia“, scrive il giornale inglese: si perché da quando l’Italia è stata ammessa al Tier 1 e al Sei Nazioni, gli Azzurri hanno vinto soltanto 12 partite su 81 aggiudicandosi per 10 volte il cucchiaio di legno “titolo” riservato a chi perde tutte le partite del torneo. Le cose non vanno meglio a livello internazionale: l’Italia non ha mai superato il primo turno ai mondiali, ed è al dodicesimo posto dell’ultima classifica mondiale di RugbyVision, dietro le Fiji e Samoa, entrambe nazionali di Tier 2 che non partecipano a manifestazioni internazionali.
“Le prestazioni deludenti dell’Italia sono difficili da spiegare”continua il The Economist. “Il Global sports index, una classifica stilata dalla società di market intelligence Sportcal, calcola che l’Italia è attualmente al nono posto tra le nazioni più atletiche del mondo sulla base di 140 diverse discipline“.
Gli italiani hanno due vantaggi: essere numerosi e godere di buone condizioni economiche, fattori molto importanti per avere buoni risultati sportivi. Un rapporto pubblicato nel 2008 da Spliss, una società di ricerca che analizza i fattori che determinano il successo nello sport al livello internazionale, rivela che il 34 per cento della varianza nei risultati sportivi tra un paese e l’altro può essere attribuito al numero di abitanti, mentre un altro 17 per cento è dovuto al pil pro capite. “Anche considerando questi vantaggi l’Italia supera le aspettative, eccellendo nel calcio, ma anche nello sci, nel nuoto, nel ciclismo, nella pallavolo, nel tennis e nella pallanuoto. E infatti, Spliss considera l’Italia un’eccezione tra i paesi europei di dimensioni simili, perché supera ampiamente le proiezioni e perché solo una piccola parte del suo successo è legata a fattori socio economici” evidenzia il giornale britannico.
Secondo quanto evidenzia il The Economist i livelli di partecipazione al rugby in Italia sono positivi: circa 82.000 italiani giocano a rugby, molti più di Scozia, Galles e Argentina. “Poter contare su un grande numero di giocatori e su un ricambio costante favorisce la continuità nelle vittorie” si legge e anche il lavoro svolto dalla Federazione pare essere positivo: “La Federazione italiana rugby (Fir), in realtà, è stata abbastanza brava a mettere in piedi quasi tutti i “pilastri” strategici di Spliss. Per esempio, la disponibilità di strutture di allenamento è fondamentale (..) i giocatori che entrano a far parte del sistema hanno molte opportunità di andare a giocare per un club e per la nazionale e “di misurarsi con gli avversari, al livello individuale e di squadra.”
Perché l’Italia fa così tanta fatica nel rugby?
Trovare le ragioni dei continui insuccessi internazionali dell’Italia, quindi, è molto più complesso di quel che si pensi. Le ragioni molto probabilmente sono da ricercare in alcuni limiti endemici e strutturali dell’intero sistema che possono essere corretti solo con politiche di sviluppo lungimiranti e costanti nel tempo.
“La nazionale italiana che ha partecipato ai mondiali del 2015 avrebbe potuto schierare una squadra composta interamente da giocatori con esperienza nel campionato inglese e in quello francese, i migliori dell’emisfero nord. Molti connazionali di Parisse, anche se magari non al suo livello, sono andati all’estero a giocare nei top club”.
“È possibile che gli insuccessi dell’Italia dipendano dalla direzione tecnica, un altro dei fattori evidenziati da Spliss? – si chiede il The Economist – Non al livello di squadra nazionale: gli ultimi quattro allenatori della nazionale sono stati un ex giocatore campione del mondo (sir John Kirwan), un ex commissario tecnico della Francia (Pierre Berbizier), un ex commissario tecnico del Sudafrica (Nick Mallett) e adesso Jacques Brunel, ex assistente del commissario tecnico francese”.
Nonostante la partecipazione, le strutture, le opportunità e le competenze tecniche al livello nazionale l’unica possibilità individuata dal giornale inglese è quella relativa ad una scarsa attenzione alla crescita e allo sviluppo dei giovani. L’Italia produce un buon numero di rugbysti ma non sufficientemente competitivi. “Inoltre – secondo quanto si legge – molti osservatori in Italia sono convinti che gli allenatori delle squadre giovanili siano di un livello inferiore rispetto a quelli dei paesi più forti, la qualità degli allenamenti è bassa e la crescita dei giocatori soprattutto al sud è molto trascurata“.
La causa delle difficoltà italiane a primeggiare nel rugby sarebbe quindi “la mancanza di talento, frutto di una politica di formazione dei giovani relativamente inefficace e di un’amministrazione poco illuminata, è l’unica spiegazione convincente per i continui insuccessi dell’Italia”.