Bambole reborn: oggetto da collezionismo o dispositivo patologico?
Le bambole reborn sono bambole realizzate artigianalmente: la loro principale caratteristica consiste in un realismo talmente perfetto da poter essere confuse con neonati in carne e ossa. In origine create per collezionismo e successivamente utilizzate per scopi terapeutici nell’ambito di interventi non farmacologici, si trovano oggi al centro di numerose polemiche per l’utilizzo talvolta patologico di cui sono sono diventate oggetto.
Origini delle bambole reborn: cenni storici, collezionismo e uso terapeutico
Non esiste una teoria univoca riguardo alla nascita (o rinascita) di questi finti e perfetti neonati in silicone: basti pensare che la bambola è la forma di giocattolo più antica del mondo. Tuttavia, la pratica di rimaneggiarla per arrivare alla creazione di un oggetto ancor più simile e fedele alla realtà, sembra essere piuttosto recente.
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 infatti, ha preso piede negli Stati Uniti la pratica di modernizzare le bambole, riassemblandone le parti del corpo con lo scopo riprodurre le fattezze di un bambino nel modo più realistico possibile. Il termine che le definisce deriva dalla composizione delle parole “Re” – “Born” ovvero, nate una seconda volta.
Da qui la crescita esponenziale del fenomeno del collezionismo: la ricerca della perfezione si è progressivamente tradotta in realizzazioni dall’alto valore artigianale, se non addirittura artistico, caratterizzate da un’inconfutabile bellezza estetica e cinestetica. Le minuscole mani dalla pelle sottile, i capelli veri cuciti uno ad uno sul capo con la tecnica del micro-rooting, il rossore delle guance, il peso specifico, l’espressività degli occhi e del volto. In una foto qualunque, sarebbe difficile distinguerle da neonati vivi. Da un punto di vista percettivo-sensoriale? Stesso, labile confine.
Le bambole reborn, tuttavia, non nascono come un giocattolo: per questo sono vietate ai minori di quattordici anni. Sono state introdotte in ambito terapeutico da Britt Marie Egedius Jakobsson in Svezia, negli anni ’80. La psicoterapeuta è stata una delle prime studiose a sperimentare l’effetto del gioco con la bambola, notandone i miglioramenti sul figlio con sindrome di autismo. Questa tipologia d’interazione infatti portava a un incremento dei sistemi di accudimento e protezione.
Nasce così la “Doll Theraphy”, impiegata come trattamento non farmacologico in area geriatrica per curare l’Alzheimer, la demenza senile e alcune patologie psichiatriche caratterizzate da disturbi del comportamento. L’oggetto della bambola non rappresenta una cura di per sé, ma l’azione di maneggiarla rende possibile far sperimentare ai pazienti delle strategie di comunicazione pre-verbali.
Il mercato online delle reborn: come vengono realizzate e quanto costano
In America, ormai da danni, le bambole reborn sono protagoniste di un vero e proprio mercato di nicchia, mentre in Italia la richiesta di questo articolo sta significativamente aumentando.
Sono realizzate sia in vinile sia in silicone: entrambe costano così tanto da renderle compatibile con un mercato di nicchia, anche se le prime non saranno mai care quanto le seconde. Per il vinile si parte da un minimo di 500 euro a un massimo di 1,200 euro: il prezzo varia anche a seconda dell’età del bambino che si intende riprodurre.
Per le bambole in silicone, invece, che rappresentano unicamente i neonati, si parte da un budget di 1.500 euro. Una delle più costose è stata venduta in Inghilterra a 1,650 sterline, con le sembianze del principino George. Altri pezzi di collezionismo estremo sono arrivati a costare 16mila o 20mila euro. Comunemente, però, le più accessibili possono essere acquistate su Amazon, E-bay e su gruppi di Facebook appositi, in alcuni dei quali sono direttamente le artiste di bambole a metterle in vendita.
O in adozione? Perché questo è il termine che viene utilizzato per la compravendita delle reborn: essendo molto simili a bambini in carne ed ossa, per gli appassionati sembra più adeguata tale definizione.
Fenomeno mediatico e umanizzazione dell’oggetto: dispositivo patologico
Utilizzare il termine di “adozione”, è soltanto una delle molteplici modalità di umanizzare le reborn. L’attenzione mediatica è stata sollevata principalmente dallo scrittore Vincenzo Maisto, autore della pagina Facebook “Il signor Distruggere”, un vero e proprio blog dell’ironia dissacrante. La sua attenzione si è rivolta, tra gli altri, al gruppo “Il mio bimbo speciale”, sede di scambi di consigli tra “madri adottive” delle bellissime bambole.
Questo è solo uno dei tanti gruppi in cui avviene un vero e proprio confronto comunitario su come trattare i propri “bebè”: crescono i casi di donne che assumono delle baby-sitter affinché i finti neonati vengano accuditi in loro assenza; casi di richieste di visite in ospedali pediatrici, rifiuto di “adozioni/vendite” a “genitori” single, per non menzionare l’ampliamento del mercato rispetto ai kit per le bambole, forniti di tutto il necessario per le cure reali di un oggetto che, fino a prova contraria, resta inanimato.
La perplessità rispetto a tale fenomeno risiede non tanto nell’evidenza che vengano cullati tra le proprie braccia dei corpicini in vinile e silicone, quanto il significato trasposto su tale interazione. Oltre al tentativo di colmare un vuoto attraverso l’accudimento, lo snodo problematico più evidente risiede nel distacco dalla realtà e sulle sue possibili conseguenze. Quale sarà il confine tra collezionismo di bambole e umanizzazione patologica? Il quesito resta aperto.