La forza di Annibale era il cervello, forse uno dei migliori mai apparsi sulla faccia della Terra. I suoi uomini lo idolatravano e veneravano come una divinità. Era capace di prevedere gli esiti delle battaglie e di improvvisare soluzioni; sotto la sua guida, i soldati non avevano paura di morire, perché lo consideravano più divinità che uomo – anche se lui non faceva nulla per alimentare questa fantasia.
Semplicemente, quando si trattava di combattere, Annibale era inarrestabile. Con la morte di suo cognato Asdrubale, nel 221 a.C., era diventato il capo supremo dell’esercito cartaginese.
Il suo primo obiettivo era conquistare l’intera penisola iberica, dov’erano i carpetani. Erano molti, ben addestrati e disciplinati, e si erano preparati all’arrivo alleandosi con olcadi e vaccei, per un totale di 100,000 uomini. Lui non si preoccupò. Mandò all’attacco una sparuta minoranza dei suoi uomini, perlopiù reclute e schiavi, e gli ordinò di resistere il minimo necessario prima di ritirarsi oltre il fiume Tago. Una battaglia all’arma bianca è una sorta di psicosi collettiva, in cui serve un addestramento potentissimo per rimanere nei ranghi e non farsi travolgere dalle emozioni.
Quando i cartaginesi fuggono, i carpetani li inseguono nell’ebbrezza omicida della vittoria. Annibale, sull’altra sponda, aveva tenuto nascoste le truppe migliori e i mahut – i conduttori degli elefanti – che saltano addosso ai nemici appena mettono piede in acqua, usando frecce o calpestandoli. Terrorizzati fanno dietrofront, ma scoprono che due squadre di cavalleria mercenaria li aspettavano proprio sulla sponda da cui erano partiti, e li falcidiano. Non sopravvive nessuno, e Annibale assume il comando della penisola preparandosi alla meta più ambita: Roma.
Nel 218 a.C., Scipione ha appena 17 anni.
È nell’accampamento romano sul Ticino e osserva con orrore l’esercito di suo padre venire massacrato dai soldati numidi di Annibale, con una strategia che non avevano mai visto. Aveva tenuto la cavalleria pesante al centro e ai lati dei soldati pressoché nudi e con armi leggere, l’opposto di quanto veniva fatto all’epoca. Si era rivelata una strategia grandiosa. I romani erano stati accerchiati da scheggie impazzite e riposate, che li massacravano con agilità mentre loro erano stanchi dalla battaglia contro la cavalleria.
Scipione vede suo padre e la sua guardia personale a cavallo venire circondato e ferito. Terrorizzato, incita il resto dei soldati ad attaccare, ma loro sono paralizzati dalla paura. Senza nemmeno indossare l’uniforme, Scipione monta a cavallo e sprona per tentare di salvarlo. Quella dell’ufficiale che ha il coraggio di andare dove la truppa esita è un’immagine che colpisce l’orgoglio degli uomini; i soldati gli corrono dietro e riescono non solo a salvare il padre, ma a spaventare i numidi il tempo necessario a permettere la ritirata.
Scipione si merita il soprannome di “Scipione il salvatore”, ma le ferite di suo padre non si sistemeranno mai del tutto, rendendolo invalido. Annibale, dal fondo del campo, vede la scena e scrolla le spalle. Roma è comunque condannata, e quella è una battaglia minore. Il 2 agosto 216 i romani ci riprovano a Canne, in Puglia, decisi a spazzare via l’invasore. Schierano 80,000 uomini, ma Annibale usa di nuovo la testa. Attira i legionari in un attacco frontale contro il proprio esercito, che lentamente arretra al centro della vallata. A quel punto fa una manovra a tenaglia, mettendo in campo i suoi soldati migliori e più addestrati.
È l’ennesima carneficina, 70,000 uomini trucidati. Polibio racconta che i cartaginesi erano più stanchi di uccidere che di combattere, e i superstiti romani scappano. A quel punto, la strada per Roma è spalancata. Annibale non lo sa, ma sta per cambiare il corso della Storia umana. Se avanza, la geografia per come la conosciamo non esisterebbe e io starei scrivendo in un’altra lingua. Invece Annibale esita, e preferisce cercare nuovi alleati prima di sferrare l’attacco finale, convinto che a Roma lo aspettino truppe fresche, quando non è così.
Maarbale, capo della cavalleria cartaginese, ci scherza su. Gli dice «Gli dei non possono concedere a una sola persona tutte le doti. Tu sai vincere, Annibale, ma della vittoria non sai che farci.»
I romani sopravvissuti tornano a casa, ma vengono accolti malissimo sia dalle autorità che dalle famiglie. Sono la prova vivente della sconfitta: ognuno di loro rappresenta centinaia di uomini caduti al posto loro. La vita per le strade dell’Urbe è terribile, e le autorità decidono di non avere più bisogno di loro. Li esilia in Sicilia, da cui i legionari scrivono una lettera:
«Noi, ai quali nulla ci si può rimproverare se non di non essere morti a Canne, siamo relegati lontani dalla Patria e dal nemico, condannati a invecchiare in esilio, affinché non ci si offra né mezzo n°é occasione di cancellare l’ignominia, di placare lo sdegno dei cittadini e nemmeno di morire da prodi. Non chiediamo che finisca la vergogna, chiediamo le peggiori fatiche e pericoli, affinché avvenga subito ciò che doveva accadere a Canne; perché tutto il tempo vissuto dopo Canne è solo disonore».
Nessuno risponde, e gli anni passano. Annibale recupera le forze, ottiene altre vittorie e Roma non sa più che fare, così incarica un ragazzino di tentare un’ultima, disperata difesa: Scipione. Lui sa che è un’impresa disperata, ha visto Annibale in azione e prova nei suoi confronti un odio feroce. Ha bisogno di truppe altrettanto motivate, così va in Sicilia a recuperare quel migliaio di legionari esiliati.
Il suo piano è semplice e folle: andare in Africa, a Zama, e risolvere la questione con Annibale una volta per tutte. Non ottenere una vittoria, ma un binomio: vendicarsi o morire nel tentativo. I legionari impazziscono di gioia e lo seguono.
Il 19 ottobre 202 a.C. si decidono le sorti del mondo antico
Annibale ha 12,000 mercenari, 15,000 cartaginesi e 15,000 veterani. 4000 uomini tra cavalleria e numidi e 80 o più elefanti. Scipione ha una fanteria di 23,000 romani e 6000 numidi; cavalleria composta da 1500 romani e 4000 numidi. Ma soprattutto ha esperienza e motivazione.
Inizia Annibale, con la carica degli elefanti che terrorizza a vista, ma i romani ormai li conoscono e sanno come gestirli. Da dietro gli scudi tirano fuori trombe acute e urlano come scalmanati; le bestie prendono paura e tornano indietro, travolgendo l’ala sinistra cartaginese. Scipione ne approfitta e manda subito la propria cavalleria a finirli. Non tutti gli elefanti hanno preso paura, però, e Annibale è veloce nel riorganizzarli all’assalto.
Scipione aveva previsto anche questo.
Con una tromba ordina agli uomini di mettere in pratica la strategia concordata. Gli hastati si fanno da parte e, sempre suonando trombe e gridando, formano dei corridoi. Gli elefanti ci si infilano e percorrendoli vengono tempestati di freccie e lance. Alcuni muoiono, altri tornano indietro travolgendo l’ala destra della cavalleria di Annibale. Anche stavolta Scipione ne approfitta e manda la cavalleria a finirli.
I cartaginesi scappano, ma Scipione ordina di non inseguirli. Tocca alla fanteria, e qui i romani sono in difficoltà. Annibale aveva previsto che gli elefanti potessero venire ingannati e uccisi in quel modo, ma adesso i corridoi sono il terreno ideale perché le truppe ci si infilino dentro, travolgendo l’esercito romano in inferiorità numerica e stanco.
I romani iniziano a cadere e indietreggiare.
Scipione se ne accorge in tempo, ma non ha altro da schierare: la cavalleria è impegnata a inseguire quella nemica. Può solo resistere e aspettare gli ufficiali tornino indietro, perché Scipione aveva imparato dalla battaglia dove aveva salvato suo padre. La cavalleria deve tornare indietro, non inseguire i soldati nemici a oltranza.
Ed è quello che succede.
I cartaginesi vengono travolti da Massinissa, l’ufficiale in comando della cavalleria, che ha rinunciato a sterminare i nemici per restare sul campo. Presi tra due fuochi, con dei legionari romani che non hanno alcuna paura di morire e anzi, cercano la morte a ogni costo per salvarsi l’onore, soccombono. Annibale e la sua guardia personale riescono a fuggire, ma l’esercito cartaginese viene spezzato per sempre.