Serbia: bye bye Tadic, ma qualcosa di buono resta
Pubblichiamo questo articolo di Matteo Tacconi, giornalista esperto di Europa orientale, collaboratore di Europa quotidiano e di numerose riviste di settore. Una firma importante cui ci fa sempre piacere dare voce, al di là della difformità d’opinione che anzi non può che giovare – crediamo – al lettore.
[ad]Boris Tadic ha perso le elezioni presidenziali di domenica, contro ogni aspettativa. Lascia il palazzo dopo due mandati e tra mille critiche, accentuate dalla bruciante sconfitta. Troppo vanitoso, troppo innamorato di se stesso, troppo invadente con i media e troppo poco disposto a farsi criticare, troppo timido sulla riconciliazione con Bosnia e Croazia, troppo temporeggiatore, troppo concentrato a farsi bello con gli europei da dimenticare che l’economia serba va a rotoli, troppo certo che le elezioni si potessero vincere puntando tutto sull’integrazione con l’Ue tralasciando la questione salariale e occupazionale, troppo primo ministro e troppo poco presidente (forse sono queste ultime tre le sue principali colpe). S’è detto questo, dell’ex presidente serbo. Ma, considerandone le debolezze e i limiti, è giusto anche porre l’accento su quanto di positivo, in due mandati, soprattutto nell’ultimo, quando la sua presidenza è stata molto meno notarile, Boris Tadic è riuscito a conseguire. Iniziamo la carrellata.
1) La cattura di Radovan Karadzic, Ratko Mladic e Goran Hadzic, i tre grandi ricercati dei Balcani. Presi durante il secondo mandato Tadic. Qualcuno dirà che la Serbia avrebbe dovuto consegnarli prima. Però è anche vero che arrestarli ha significato aspettare il momento giusto: quello in cui i segmenti nazionalisti della società e soprattutto l’accoppiata servizio-esercito avrebbero accettato la cosa senza erigere barricate o peggio ancora mettersi a usare la violenza.
2) La Serbia ha perso il Kosovo, ma ha mantenuto il sangue freddo. Alla vigilia dell’indipendenza dell’ex provincia, arrivata il 17 febbraio del 2008, in molti – compresi alcuni colleghi – scommettevano sulla destabilizzazione, sull’embargo totale di Belgrado nei confronti di Pristina, persino su una nuova guerra. Non c’è stato nulla di tutto questo. Presidenza e governo serbi hanno combattuto la loro battaglia sul piano diplomatico, portando avanti due obiettivi: rallentare il processo di riconoscimento internazionale del Kosovo e rendere la vita difficile al secondo stato albanese dei Balcani, mantenendo le cosiddette “istituzioni parallele” (scuole, uffici pubblici, polizia, banche) nel versante settentrionale del territorio kosovaro.
La sensazione, abbastanza chiara, è che la Serbia sa che il Kosovo è perso. Allora – ecco le tesi dei critici di Tadic – che senso ha tutto questo? Perché non riconoscere da subito l’evidenza, vale a dire l’indipendenza di Pristina, invece che incaponirsi in una battaglia persa? Molto semplice. La questione urta ancora la sensibilità dei serbi e Boris Tadic non può rinunciare al Kosovo così, dalla sera alla mattina. Senza contare che darebbe prova di cedevolezza davanti all’Europa. La tattica è stata dunque quella di negoziare, anche duramente, le piccole concessioni alla sovranità kosovara mediate da Bruxelles, conservando in cambio ampio controllo sul nord del Kosovo e la possibilità di mostrare alla società serba l’attaccamento alla “culla della nazione”.
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