Quella del taglio alle poltrone è una lotta che va avanti da tempi immemori, ma che per avere una sua soluzione dovrà necessariamente attendere.
A causa dell’emergenza sanitaria che il Paese sta affrontando, il referendum sul taglio dei parlamentari, inizialmente previsto per il 29 marzo, è stato posticipato a data da destinarsi. Una scelta obbligata da una realtà compromessa.
Il referendum sul taglio dei parlamentari è sempre stato storicamente un terreno di scontri politici. Era il 1983 quando si fece il primo tentativo di riduzione dei parlamentari. Da allora ci furono altri 6 tentativi che di fatto hanno creato un filo di continuità tra Prima Repubblica e Seconda Repubblica, accompagnando proposte che partono dalla Democrazia Cristiana, che passano da Berlusconi, oltrepassano Renzi ed arrivano fino al giorno d’oggi. Tutti tentativi falliti. Tutti per motivi differenti.
Ad ottobre del 2019 qualcosa però è cambiato, poiché il Parlamento italiano ha deciso di rinnovarsi: si passerebbe dagli attuali 630 deputati a 400 e da 315 senatori a 200, per un ridimensionamento totale di 345 poltrone.
Un voto, quello dei “tagli alle poltrone”, che in aula ha trovato il consenso di quasi tutte le forze politiche: PD, M5S, LeU, IV, Lega, FdI e FI.
Una vittoria tutta del Movimento 5 Stelle che sin dai primi vagiti istituzionali ha voluto dichiarare guerra alle dinamiche parlamentari susseguitesi negli anni, con l’esplicito obiettivo, da parte dei grillini, di voler “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”.
Un impegno, quello dei 5S, che per adesso sembra essere stato mantenuto, anche se l’agognata promessa di tagliare i costi della politica difficilmente rispetterà le stime pentastellate. Per intenderci, nel caso in cui dovesse vincere il “SI” si avrà un risparmio dello 0,007% della spesa pubblica, ovvero 285 milioni anziché 500 per legislatura, pertanto il famoso miliardo di risparmio promesso dai grillini sarebbe una cifra alquanto irreale e non raggiungibile.
Il referendum, tuttavia, potrebbe rappresentare una vera e propria incognita e potrebbe ribaltare l’esito dell’aula.
Se nell’ottobre 2019 la (neo) alleanza di governo caratterizzata dal rosso del PD e dal giallo dei 5S, sembrava andare d’amore e d’accordo dopo essere riuscita a scalzare l’ex vice-Premier Salvini, a febbraio 2020, lo scenario politico stava vorticosamente cambiando, dando il via ad una “causa di divorzio” che col passare del tempo sembrava rendersi sempre più plausibile.
Se da una parte il Movimento 5 Stelle, grazie all’aiuto del Partito Democratico, è riuscito a rendere realtà uno dei cavalli di battaglia del programma grillino, dall’altra un’apparente coalizione per il “SI” rimane tutt’ora in bilico.
Nonostante la posizione pentastellata sia abbastanza chiara non si può dire altrettanto per le altre forze politiche come Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia, che, nonostante il voto favorevole alla riforma, hanno raccolto subito dopo le firme per la richiesta di un referendum confermativo. Si registrano, in tal senso, le firme di molti esponenti di Forza Italia, del Partito Democratico, di Italia Viva, della Lega, di ex grillini, di alcuni esponenti del gruppo misto e anche di qualche franco tiratore pentastellato. Insomma, se da una parte la volontà della riforma è condivisa, dall’altra la volontà nello sconvolgere le carte in tavola è molto forte.
Una situazione che vede gli alleati di governo appoggiare i grillini per il “SI”, nonostante alcune dichiarazioni ambigue di qualche esponente dei dem, come quelle del tesoriere Luigi Zanda rilasciate al giornale “La Stampa” il 6 febbraio, le quali sembrano gettare un alone di mistero su quella che sarà la posizione definitiva e quelle del segratario del Partito Democratico. Al fronte del “SI” si unisce anche il Sudtilorer Volkspartei, che nella riduzione del numero dei parlamentari vede la garanzia per una rappresentanza delle minoranze linguistiche e delle autonomie speciali.
Di contro, il fronte dei “NO” vede una cospicua rappresentanza di Forza Italia con l’ex vice-presidente della Camera Simone Baldelli e Deborah Bergamini come capofila dei forzisti, insieme a +Europa, i Radicali, alcuni esponenti del gruppo misto, l’Anpi (l’associazione nazionale dei partigiani d’Italia), l’associazione Libertà e Giustizia, i Verdi, i senatori eletti all’estero (Francesca Alderisi (Fi), Alessandro Cario (Maie), Laura Garavini (IV), Francesco Giacobbe (Pd), Raffaele Fantetti (Fi) e Ricardo Merlo (Maie), Azione di Calenda, il Partito Socialista Italiano e Rifondazione comunista.
Rimangono esterni alla semplificazione del “SI” e del “NO” la Lega, Fratelli d’Italia e il movimento delle sardine. Se per i primi due si dovrebbe andare verso la conferma del voto dato in aula – nonostante i colpi di scena siano dietro l’angolo – dall’altra le sardine devono ancora propendere per una posizione unitaria che con molta probabilità sarà tendente per il “NO”.
L’ulteriore – ma non insignificante problema – deriva dagli avvenimenti che stanno sconvolgendo l’Italia nell’ultimo periodo. L’emergenza legata al coronavirus lascia un alone di mistero sulla sopravvivenza di determinate dinamiche politiche instauratesi nel periodo antecedente all’emergenza sanitaria e non possiamo escludere possibili sconvolgimenti politici alla fine della crisi. Tuttavia, il 29 marzo – giorno inizialmente scelto per il referendum – passerà alla cronaca come un altro giorno di orgoglio nazionale per l’intero Paese, dove migliaia di medici, autotrasportatori, infermieri, cassieri lottano in trincea per vincere la guerra contro il virus. Migliaia d’italiani che con i loro sacrifici vogliono riprendere in mano la realtà che hanno dovuto abbandonare a causa di questo virus canaglia.
Il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari è stato momentaneamente scalzato dall’agenda politica italiana. Ci sarà un momento per tornare a parlarne e per tornare a dibatterne, ma in una situazione così precaria a livello nazionale e a livello governativo il referendum si rivelerebbe un’ulteriore spada di Damocle per l’Italia.