A Future to Believe In: il pesante testimone di Sanders
Nel 2016 ha quasi cambiato la storia del Partito Democratico. Durante la presidenza di Trump ha fatto il talent scout. Adesso vuole solo cambiare le regole del gioco, e i Democratici devono fare i conti con il pesante testimone di Sanders.
Bernie Sanders lo sapeva dal principio che il suo movimento sarebbe sopravvissuto a lui stesso: del resto, negli ultimi tempi la carne aveva mostrato tutta la sua debolezza, ma lo spirito non ha mai mollato di un centimetro. E non è un caso che – quando tutti pensavano che la sua fine fosse inevitabilmente giunta – abbia deciso di rallentare e di dedicarsi completamente alla diffusione della sua agenda. I Democratici devono fare i conti con il pesante testimone di Sanders.
Nel 2015 il Partito Democratico era profondamente diverso: 8 anni di presidenza Obama l’avevano ancorato ai risultati raggiunti dall’amministrazione. I Democratici – senza accorgersene – stavano perdendo il sostegno della working class e non si concentravano abbastanza sul tema delle minoranze – del resto, come pensarci dopo aver eletto il primo Presidente di colore? – e la strada da percorrere per recuperare terreno sembrava essere quella della continuità con la piattaforma di Obama.
Inizialmente, la candidatura di Sanders per la nomination democratica fece storcere il naso ai più perché arrivava dopo anni nel novero degli indipendenti, perché la Clinton godeva di un diffuso sostegno e perché il Senatore del Vermont presentava una peculiarità difficilmente trascurabile nel territorio che intercorre fra i confini del sud del Canada e appena sopra all’America Latina: si definiva un socialista democratico.
L’agenda, ovvero quello che i Democratici non vedevano
Nel solco della politica democratica moderna, tracciata in buona parte da Obama dopo gli anni di Bush junior alla Casa Bianca, Sanders comincia a posizionarsi nel campo grazie alla necessità, al Senato, di poter contare sul suo voto per evitare il tracollo contro i Repubblicani. E’ in questo scenario che molti elettori conoscono Bernie Sanders: il Partito Democratico poteva contare al Senato su di un voto indipendente che spesso approvava il proprio operato.
Nel tempo, Sanders è riuscito a costruire una vera e propria piattaforma associata al suo nome che si è insinuata nei meandri delle posizioni democratiche, specularmente a quello che ha fatto Donald Trump candidandosi alle primarie repubblicane.
Entrambi hanno risvegliato quanto di più antico vive nelle fratture politiche: il divario fra centro e periferie. Le periferie che hanno fatto passare una brutta notte elettorale a Hillary Clinton, e festeggiare Donald Trump. Le periferie che hanno portato alla ribalta del Partito Democratico Bernie Sanders e che hanno imposto un radicale cambio di piani nel policy-seeking democratico.
In poco tempo la popolarità di Sanders cominciò a crescere grazie alle sue posizioni su temi spesso messi in panchina dai dem, come la riforma estesa di Medicare, il Gun Control, la questione del debito studentesco e quella delle grandi multinazionali.
Dal 26 Maggio 2015, quando l’anziano senatore di Burlington spiazzò tutto il gruppo dirigente democratico annunciando la propria candidatura alle primarie, questi temi sono entrati nell’agenda politica del Partito, senza più volerne uscire.
Midterm, ovvero la prova del fuoco
Dopo la vittoria di Trump nel 2016, lo spazio politico di Sanders sembrava essere giunto ad un bivio: alcuni sostenevano che la sua mancata nomination avesse fatto perdere i Democratici, altri lo incolpavano di non aver sostenuto Hillary Cinton dal principio. In entrambi i casi, il suo movimento sembrava essere determinante ai fini del risultato democratico.
La rivoluzione del 2016 aveva portato tanto entusiasmo e aveva raccolto finanziamenti che da soli sarebbero bastati in qualsiasi altra campagna per costituire un record, ma non quando nella stessa campagna c’è Hillary Clinton. Le idee, però, erano germogliate. E la rivoluzione si tramutò da subito in movimento: non bisognava sprecare quell’energia, ci sarebbero state altre battaglie.
Alexandria Ocasio-Cortez divenne da subito una di queste battaglie. Originaria del Bronx, prima della conquista del Congresso lavorava in un locale notturno e viveva in un piccolo appartamento a New York con il marito. Era l’esatto profilo che il movimento di Sanders aveva risvegliato, e la dimostrazione fu la prova di forza che dovette affrontare la giovane Congresswoman: dall’altra parte della barricata, in un seggio di New York che non ha avversari repubblicani da molto tempo, c’era l’incarnazione del Partito Democratico, Joe Crowley. Il resto è storia.
Ilhan Abdullahi Omar diventerà la sifda dei record. La deputata del quinto distretto del Minnesota è la prima immigrata somala eletta come deputato, la prima cittadina naturalizzata eletta come deputato e la prima donna di colore ad essere stata eletta deputato. Anche lei rappresenta pienamente uno dei profili che il movimento di Sanders ha risvegliato: i suoi cavalli di battaglia in Minnesota sono stati la riforma della sanità, il debito studentesco e l’abolizione dell’ICE.
Assieme a Rashida Harbi Tlaib, deputata del Michigan e a Ayanna Soyini Pressley, deputata del Massachusetts, Ocasio–Cortez e Omar formano l’ala radicale di sinistra del Partito Democratico nata interamente dai movimenti grassroot e dal Justice Democrats political action committee. E anche loro devono fare i conti con il pesante testimone di Sander, ora che sono state lanciate.
La campagna del 2020 e il futuro
Ma il movimento di Sanders non si ferma alle elezioni del 2018: il dibattito pubblico intorno ai democratici in questi anni si è spostato sempre più a sinistra e lo dimostrano le Primarie democratiche di quest’anno. Cominciate come le primarie dei record (con il maggior numero di candidati della storia delle Primarie), hanno visto la partecipazione di esponenti democratici molto diversi fra loro, che però hanno fatto tesoro delle policy imposte da Sanders.
Cory Booker, Andrew Yang e Kamala Harris, outsider della sfida le cui campagne sono terminate più o meno subito (almeno virtualmente, nel caso della Harris), hanno spinto sin dal principio su temi cari all’area sandersiana, come l’espansione di Medicare e l’annullamento del debito studentesco.
Beto O’Rourke, lo sfidante di Ted Cruz per il posto di Governatore del Texas nel 2016, sembrava essere una delle migliori promesse nel campo dei new democrats e aveva implementato nella sua piattaforma proposte che avevano un grande debito nei confronti del Senatore del Vermont. La storia poi non è stata particolarmente clemente con l’uomo che ha rischiato di riscrivere la storia del Texas moderno.
In mezzo ai tanti candidati, Sanders questa volta avrebbe avuto l’occasione di una vita: non solo poteva competere come non era davvero riuscito a fare nel 2016, ma poteva anche contare sulla forza delle sue proposte, prese in carico da molti altri partecipanti. E’ probabilmente questo il senso della campagna elettorale di un Senatore quasi ottantenne consapevole di tutti i suoi limiti, umani prima che ideali: le idee rimangono, gli uomini passano. E le idee di Sanders, che pure in qualche modo rimandano a movimenti passati più sfortunati come la pazza corsa di George McGovern contro Richard NIxon nel 1972, non hanno intenzione di andarsene dal Partito Democratico.
Bernie Sanders ha perso le Primarie democratiche del 2020 perché il Partito ha deciso di fare quadrato attorno all’eterno candidato Joe Biden. I motivi di questa scelta sono ben visibili, e condivisibili: l’America, quella dei grandi centri, dei confini con il Messico e delle Capitali dove l’economia funziona non ha bisogno di un vecchio Senatore che pronuncia con nonchalance la parola “socialismo“.
Cosa rimane
Ma Sanders lo sa, e da parecchio. Questa America non ne avrà bisogno, la prossima probabilmente si. Ed è per questo che il movimento potrà contare su specifici elementi che torneranno utili in futuro: chi raccoglie il testimone di Sanders è un gruppo di nuovi democratici attenti all’ambiente, al femminismo e all’inclusività delle proprie idee. E’ un gruppo formato da giovani immigrate, cittadine naturalizzate, filantropi attenti ai temi fiscali delle grandi multinazionali e giovani uomini che predicano inclusione nelle terre dove si costruiscono muri.
Non si può sapere ora chi raccoglierà il testimone di Sanders negli anni a venire, ma possiamo ipotizzare che chiunque sia avrà un compito importante: riformare il Partito Democratico senza escludere nessuno. Chi afferma l’inefficacia di Joe Biden come candidato presidenziale, sbaglia. Biden ha dovuto confrontarsi con la piattaforma sandersiana, è stato costretto a ridefinire le regole di ingaggio su Medicare e tante altre questioni, e a campagna inoltrata farà suoi temi come il Green New Deal e la restaurazione della working class americana.
Tutto questo è stato possibile grazie alle campagne di Bernie Sanders, e in futuro i candidati democratici dovranno inevitabilmente farci i conti. Biden era stato chiaro, come pure lo era stato Obama prima di lui: dopo il 2020 largo alle nuove proposte, ai nuovi percorsi. L’unica certezza, ad oggi, è che i dem dovranno costruire una piattaforma il più estesa possibile, per risultare competitivi a Novembre. Qualcosa, in ogni caso, si sta muovendo.