Biden ritira le truppe statunitensi: cosa rimane dell’Afghanistan?
A vent’anni dall’attentato alle Torri gemelle, Joe Biden ritira le truppe statunitensi dall’Afghanistan. La data, annunciata ad aprile, è quella del ventennale, l’undici settembre 2021. Ma c’è una storia parallela che lega l’attuale presidente al Paese mediorientale. Una storia che inizia nel gennaio 2009.
I rapporti tesi tra Biden e Hamid Karzai
Torniamo indietro di dodici anni. È il gennaio 2009 e l’attuale presidente americano sta per diventare vicepresidente. Durante una visita a Kabul, Biden siede a cena con il presidente afghano Hamid Karzai e le cose non vanno per il meglio.
Biden avverte Karzai che è ora di iniziare a governare per tutti gli afghani e non solo per una parte. Questo in riferimento alle accuse di corruzione rivolte al fratello del presidente in quel periodo.
In risposta, Karzai (pare) aver risposto che agli Stati Uniti non importasse dei morti afghani, lasciando intendere che fossero nel Paese esclusivamente per i loro interessi.
Qui inizia la lunga “delusione” di Biden nei confronti della guerra in Afghanistan. Nonostante avesse inizialmente appoggiato l’invasione ordinata dal presidente Bush, la cena con Karzai contribuì a far cambiare idea a Biden.
Dopo l’undici settembre e il rifiuto dei talebani (allora in controllo del 90% del territorio afghano e de facto sovrani del Paese) di consegnare Osama Bin Laden, Bush ordinò l’attacco.
L’obiettivo era quello di rovesciare il regime estremista talebano e aiutare il Paese a rialzarsi dopo decenni di varie guerre.
La politica di Obama per l’Afghanistan
Tornato a Washington, Biden cercò di convincere il presidente Obama che quello non era il momento di inviare altre truppe nel Paese. Il passare degli anni avevano reso Biden sempre più convinto che gli Stati Uniti fossero intrappolati nel Paese e che la guerra fosse impossibile da vincere.
Nonostante il cambio di visione del futuro presidente, Barack Obama non era intenzionato a interrompere le operazioni statunitensi nel Paese. Al contrario, il Presidente inviò altre truppe con decine di migliaia di soldati inviati in Afghanistan nella sola prima metà del 2010. A quel punto, le truppe nel Paese superarono il numero di quelle inizialmente impiegate nell’invasione dell’Iraq.
L’accordo tra Trump e i talebani
Passano gli anni e alla Casa Bianca arriva Donald Trump, sulla scia di anni di dichiarazioni contro lo spreco di vite americani in Afghanistan e l’inutilità della guerra stessa. Tuttavia la sua strategia prese una piega diversa una volta in carica.
Il 21 agosto 2017, sei mesi dopo il suo giuramento, dichiara che avrebbe aumentato il numero di soldati nel Paese, senza tuttavia specificare quando e di quanto. Questo annuncio fu accolto con favore dal governo afghano e fu accompagnato dalla richiesta delle CIA di poter condurre i suoi attacchi con i droni senza “passare” per il Pentagono.
Un mese dopo, 3000 soldati statunitensi arrivano in Afghanistan e portano a 14000 il totale delle truppe nel Paese. In questo periodo avviene un cambio radicale da ambo le parti: Trump ordina di puntare su bombardamenti aerei sempre più frequenti mentre i talebani iniziano ad utilizzare sempre più sofisticati e letali attacchi suicidi. Questi avvengono in ogni parte del Paese e anche nella capitale Kabul, lanciando il messaggio che i talebani possono colpire ovunque vogliano quando vogliono.
Il processo di pace
Nonostante quanto detto finora, fin dal 2001, ci sono stati dei più o meno timidi tentativi di negoziare una pace. Il fatto che siamo nel 2021 e ancora stiamo parlando di questa guerra fa capire, quanto questi siano stati produttivi.
Nel 2018, i talebani e il governo statunitense riescono a instaurare un canale di comunicazione abbastanza solido da avere colloqui di pace.
Il 29 febbraio 2020, a Doha in Qatar, le due parti firmano un accordo di pace. Questo trattato prevede:
- il ritiro di tutte le truppe statunitensi e NATO dal Paese
- la promessa dei talebani di non permettere ad al-Qaeda di operare nelle zone da loro controllate
- colloqui tra i talebani e il governo afghano per assicurare il mantenimento della pace nel Paese
I soldati statunitensi dovevano diminuire da 13000 a 8600 entro luglio 2020 e in seguito lasciare del tutto il Paese una volta accertato che i talebani stavano rispettando la loro parte di accordo.
Inoltre, gli Stati Uniti si impegnavano a chiudere cinque basi militari entro 135 giorni e cancellare le sanzioni economiche verso i talebani entro il 27 agosto.
Un accordo bizzarro
L’accordo tra US e talebani trovò il plauso dell’ONU, della Russia, della Cina e anche del Pakistan, ex (ma non troppo) alleato dei talebani. Ma manca qualcuno. Il governo afghano.
Benché l’accordo fosse a suo modo storico, a firmarlo c’erano un Paese in qualche modo invasore e una milizia estremista. Ma non il legittimo governo del Paese.
In teoria, il governo e i talebani avrebbero dovuto cominciato i loro colloqui il 10 marzo dello stesso anno, nella neutrale Oslo. Ma chi doveva rappresentare il governo? La risposta è “Il vincitore delle elezioni del settembre 2019”, ma c’è un ma.
Il caos delle elezioni afghane
Siccome piove sempre sul bagnato, nonostante la sconfitta con il 39,52% contro il 50,64 del suo rivale Ashraf Ghani, il candidato della Coalizione Nazionale Abdullah Abdullah, decide di non accettare il risultato delle elezioni.
Anticipando Trump di un anno, Abdullah dichiara di non riconoscere le elezioni come valide e promette di formare un suo governo parallelo. Dopo una miriade di trattative, si arriva a un accordo di condivisione del potere che vede come nuovo presidente Ashraf Ghani.
Ad Abdullah viene conferito l’incarico di Capo del Consiglio Superiore per la riconciliazione nazionale e de facto capo delegazione nelle trattative con i talebani.
L’arrivo di Biden e lo spettro di un altro regime talebano
In questo metaforico tavolo a tre gambe, una di esse si sta preparando a lasciare la partita. Dopo la vittoria presidenziale, a sorpresa arriva la promessa: Biden ritira le truppe statunitensi per il ventennale dell’attacco dell’undici settembre (poi anticipato al 31 agosto).
Questo lascerà sul campo talebani e governo afghano: le due parti che prima ancora di cominciare a parlarsi hanno trovato terreno di scontro su uno scambio di prigionieri.
Ma mentre gli Stati Uniti e i loro alleati preparano le valigie e si mettono l’animo in pace, i talebani non sono rimasti con le mani in mano. Da maggio di quest’anno, hanno ripreso ad attaccare e conquistare vari distretti del Paese. In due mesi, hanno preso possesso di 148 su 399 di essi, facendo anche leva sulla debolezza delle truppe afghane.
E l’accordo di pace?
In una mossa che farebbe ridere se non ci fosse da piangere, i talebani hanno giustificato la loro offensiva dicendo che l’accordo con gli americani non prevedeva esplicitamente che non venissero attaccati i centri amministrativi afghani.
Dal canto suo, il governo ha promesso di riprendersi i territori persi ma sembrano più frasi di circostanza che grida di riscossa. Con un governo fragile e senza appoggi esterni, è lecito immaginare un sempre più inesorabile avanzamento talebano e un remake dello scenario da cui si è partiti nel 2001.
Biden ritira le truppe ma manca ancora una parte coinvolta
Nel mezzo di governi stranieri che vogliono togliersi il peso di una guerra non cominciata da loro, estremisti che vogliono sempre più potere e un governo instabile, chi paga il prezzo più alto è un attore volontariamente non ancora menzionato. Non menzionato ma colpito volontariamente e non, da tutte le parti coinvolte e che ha versato e continuerà a versare il suo sangue.
Il popolo afghano.