Analisi in tre punti dell’implosione del Partito Democratico
Il ribaltone nella corsa alla segreteria del Partito Democratico è, con buona probabilità, la notizia più rilevante per la politica italiana per questo primo scorcio di 2023. Elly Schlein vince contro quasi tutto l’apparato, che puntava fortemente su Bonaccini (cercando la continuità con l’operato dei precedenti segretari). Schlein ha ribaltato il risultato al ballottaggio grazie al supporto di chi il PD non lo vota o che, al massimo, lo vota turandosi il naso, rappresentando una sorpresa con cui fare i conti e che apre a scenari certamente più interessanti e movimentati. E forse, questa “sconfitta interna” era quasi necessaria (qui intesa come “conseguenza ovvia, fatale”, delle scelte operate dal PD). Per ricostruire, c’è da capire quali sono stati gli errori capitali commessi da un partito che non ha mai fatto mea culpa e che, anche dopo il peggior risultato della sua storia, scaricava la responsabilità del proprio fallimento sul leader di un altro partito (quando Letta, nella sua analisi della sconfitta di settembre 2022, puntava il dito contro Giuseppe Conte).
Lo scollamento necessario: un centro-centrista di puro contrasto, forte solo per il posizionamento e non per le idee
Questa implosione – e il conseguente ribaltone – si lega allo scollamento definitivo tra la base elettorale e la dirigenza. Promuovere una linea continuista dopo il peggior risultato – in termini di voti assoluti – nella storia del Partito Democratico, significava arrendersi alla mediocrità di un partito-collante più che di massa, che poteva fare da centro di gravità per una serie di partiti non tanto per la sua vitalità, quanto per il suo posizionamento sullo scacchiere politico. Un “centro centrista” pavido, incapace di prendere posizione e schierarsi, se non attraverso affermazioni strumentali con “essere l’ultimo argine alle destre e al fascismo”. Se questa narrazione non ha funzionato alle elezioni di settembre 2022,bisogna scartarla, metterla da parte. La scelta di optare per una narrazione di puro contrasto non è risultato vincente. Agitare lo spauracchio del fascismo – al di là dei rischi reali o immaginari – comporta solo una cosa: giocare sul terreno comunicativo dell’altro, con i suoi termini e i suoi concetti. Il Partito Democratico non è riuscito a creare un nuovo orizzonte: ha solo detto che la via indicata da Meloni, Salvini e il redivivo cavaliere non è quella giusta. Ma se non si offrono alternative e si lavora per quello, si sta solo provando a dissuadere dal fare o credere in qualcosa. Non c’è stata una azione di convincimento, di creazione di un nuovo immaginario, ma solo un blando tentativo di distruzione delle proposte altrui. Per chi non sente l’urgenza di imbracciare il fucile (o impugnare la penna nel segreto della cabina elettorale) per combattere contro il fascismo del XXI secolo, quel discorso non solo non ha sortito alcun effetto positivo, ma ha anche allontanato un potenziale elettore spingendolo verso il Movimento 5 Stelle (che ha occupato lo spazio riservato alla sinistra sociale) e il Partito dell’Astensione (prima forza politica in Italia).
L’effetto boomerang dello spauracchio dell’estrema destra, e quella lezione non appresa dalle elezioni americane del 2016
La prima lezione di questa implosione, legata alla strategia di comunicazione, è la necessità di avere un discorso propositivo, basato sulla costruzione. Rimarcare le differenze con l’avversario è utile fintanto che si chiarisce “chi si è” e fino a quando non si passa a demonizzare l’elettorato di colore opposto. Nel caso delle ultime elezioni, la destra ha optato per un discorso centrato sulla paura (l’emozione prevalente) ma offriva delle risposte – condivisibili o meno – a quelle stesse paure che alimentava. Il caso più lampante è quello riguardante la sicurezza e l’immigrazione, che s’intrecciano grazie alla figura dell’invasore. C’è un’emergenza sicurezza e la risposta che offriamo è la chiusura dei porti. La cornice narrativa rientrava all’interno di una visione chiara del Paese: uno Stato forte, indipendente e capace di utilizzare la violenza. Il Partito Democratico di Enrico Letta ha svolto una campagna basata sull’affermazione dell’altro, a ricordare costantemente che “loro esistono” e “chi sono loro”, e che si tratta di una minaccia reale. Questo è stato un elemento centrale e scarsamente analizzato: a furia di ricordare alla cittadinanza che “quelli lì” sono anti-democratici e che vogliono rompere con l’Occidente per abbracciare Orban e Putin, è andata a finire che chi era scettico ci ha creduto per davvero, e ha optato per quella che consideravano la scelta sovranista. Il processo di riconoscimento dell’avversario è stato così fitto, estremizzato, quasi caricaturale, che ha generato un effetto boomerang. Qualcuno qui potrà ricordare quanto l’endorsement dei mezzi di comunicazione a favore di Hillary Clinton nel 2016 contro Donald Trump rafforzò l’idea che il tycoon fosse davvero anti-establishment.
Essere popolari, anche nel modo di comunicare. La lezione della destra italiana
Per ricostruire, e passare dall’analisi della sconfitta al brindisi della vittoria, bisogna passare dal riconoscimento dei propri errori e l’ammissione della bravura dei propri avversari. Un altro elemento che è stato trascurato riguarda la vicinanza del leader e della dirigenza con l’elettorato. Una vicinanza non solo nella trattazione delle tematiche, ma anche del modo di parlare, di porsi e comunicarsi. Nel 2018, il leader della Lega Matteo Salvini fece scuola grazie alla presenza massiva sui Social Network e al suo inconfondibile stile popolare, con una felpa personalizzata per ogni città visitata. Dopo Salvini, è stata la volta di Giorgia Meloni. Forse più rispettata (o meglio, temuta) ma pur sempre tacciata per il suo marcato accento romano, per quel modo di esporre e presentarsi (volutamente) popolare. Due leader popolari, che hanno parlato al cuore e alla pancia delle persone, con una strategia di base minimalista, volta a lanciare e far sedimentare pochi messaggi ma estremamente funzionali. Il Partito Democratico, dall’altro lato, ha cercato di essere un partito maggioritario pur parlando con un linguaggio compreso solo da una minoranza. Non sorprende, quindi, che il Movimento 5 Stelle – che nasce proprio come un magnifico esperimento di comunicazione, coinvolgimento e convincimento a scala nazionale – sia riuscito a far suo una gran parte dell’elettorato disilluso dai “dem”.
Temi minoritari per partiti a vocazione maggioritaria?
Infine, la scelta stessa dei temi “portanti”, delle proposte cardine, si è rivelata fallimentare, in quanto rivolta ad una minoranza (vuoi per i contenuti, vuoi per la forma). La grande agenda sociale – quella che parla di lavoro, di progressività fiscale, di difesa della Sanità e dell’Educazione Pubblica – è stata toccata solo marginalmente, tanto per le elezioni di marzo 2018 come per quelle di settembre 2022. Se per i comizi di 5 anni fa sembra quasi del tutto naturale, considerata la guida di Matteo Renzi, va fatto un discorso per le ultime elezioni nazionali. Nella parte propositiva, il PD si posizionava in una via intermedia per quanto riguarda il salario minimo (su cui spingevano fortemente M5S e Sinistra Italiana-Verdi) e claudicava sulla progressività fiscale. L’utilizzo del termine “patrimoniale” è rimasto un tabù, anche quando le disuguaglianze economiche e sociali crescevano esponenzialmente per via di pandemia, guerra e inflazione. I temi su cui il Partito Democratico aveva il dominio erano certamente importanti (forte progresso in ambito dei diritti civili) ma assolutamente insufficienti in quanto temi determinanti per una stretta minoranza. Nel concreto, la legalizzazione dell’eutanasia e le leggi contro l’omotransfobia sono un gran passo in avanti in termini di civiltà, ma che incidono poco sulla vita del cittadino medio. Questo non significa trascurarle, bensì reinserire queste battaglie all’interno di un quadro più ampio che pone salute (fisica e mentale) e lavoro (dignitoso) al primo posto.
Se si vuole essere la casa di tutti, si finisce per essere un hotel
Per riassumere, i fattori endogeni che hanno portato al collasso del PD e alla “sconfitta interna” sono ricollegabili all’incapacità o alla mancata volontà di darsi una identità ben definita. Una posizione di comodo che, nel lungo termine, porta inevitabilmente a risultati mediocri. Verrebbe da dire che se il Partito Democratico “è la casa di tutti” (attenzione: frase utilizzata dal profetico Fassino e dalla neo-segretaria Schlein), significa che è un hotel. E lì, non si costruiscono le comunità, si è semplicemente di passaggio. Uno ci sta per comodità e necessità.
Per tanti anni, è mancato il coraggio di prendere posizione e di scontentare alcuni avventori che passavano dalle parti del Nazareno. Ora sono i suoi stessi elettori – e potenziali elettori – che hanno lanciato un messaggio forte e preciso: vanno riscritte le regole della casa. E dicono chiaramente che no, questa casa non è un albergo.