In Spagna hanno vinto (quasi) tutti. L’analisi elettorale e gli scenari
Al di là di qualsiasi simpatia politica e della bontà delle spiegazioni offerte, il leader di Vox, Santiago Abascal, è stato l’unico ad ammettere la sconfitta. Perché la passata domenica, 23 luglio, in Spagna, sembra che abbiano praticamente vinto tutti. Almeno, tra i partiti nazionali.
C’è chi vince le elezioni (PP) e chi, probabilmente, vince la Moncloa (PSOE)
Il Partido Popular guidato dall’ex presidente della Galizia, Alberto Nuñez Feijóo, ha festeggiato la vittoria delle elezioni – primo per seggi e per voto popolare – con una festa con dj in Calle Génova 13, lì dove c’è la sede dei popolari spagnolo. Mentre veniva lanciata una hit dopo l’altra, in un ambiente festoso (ma senza alcool) è apparso il candidato Feijóo insieme alla cuspide del partito. Con lui, Isabel Ayuso (presidentessa della Comunidad de Madrid e tra i possibili successori di Feijóo alla presidenza del PP) e il sindaco di Madrid, Luis Almeida. I popolari reclamano la Moncloa (lì dove c’è la sede del Governo spagnolo) e mettono sul piatto alcuni numeri incontrovertibili: primo partito in 40 province su 50, primo partito per seggi (136) e primo partito in voti totali (circa 8 milioni di voti, con un incremento di 3 milioni circa rispetto alle elezioni del 2019). Feijóo ha voluto sottolineare come nella storia democratica del Paese, non si sia mai verificata l’anomalia per cui il partito più votato non abbia poi governato – almeno per l’inizio della legislatura -. Un dato reale che, però, cozza con una realtà politica ormai nettamente cambiata, in cui si è passati da un bipartitismo quasi perfetto a un bipolarismo imperfetto, in cui il peso dei partiti regionalisti è sempre più decisivo. Proprio l’impossibilità di conciliare l’eventuale presenza di Vox – partito che vuole bandire i partiti indipendentisti e regionalisti – con questi attori fondamentali per i territori, pone in scacco, a priori, il Partido Popular. La destra non arriva a 176.
Pedro Sánchez, il redivivo
È per questo che da calle Ferraz, sede del Partito Socialista Obrero Español, si alzano altrettanti cori di giubilo, come quelli ascoltati a soli due chilometri di distanza. “Pedro” di Raffaella Carrà viene cantata a squarciagola dai tanti sostenitori socialisti che sono accorsi a salutare il loro leader. Pedro Sánchez si appresta ad assumere il titolo di Immortale della politica iberica, dopo essere stato politicamente ucciso a più riprese sia dai suoi avversari interni (nota la “congiura dei baroni” del 2017, in cui i vertici nazionali e regionali di partito lo sfidarono apertamente sostenendo in blocco Susana Díaz) che da quelli esterni. L’ex sfidante alla segreteria di partito, il leader di Podemos Pablo Iglesias (con cui in una prima fase competeva apertamente per l’egemonia del bando progressista), Mariano Rajoy, Santiago Abascal e ora Alberto Nuñez Feijóo. Per ora, nessuno è riuscito a dare il colpo di grazia al già due volte presidente del Consiglio dei Ministri e autentico highlander socialista. Eppure, questa sembrava “la volta buona”.
Il colpo di scena che cambia la storia: si vota con il bermuda e non col cappotto
Dopo il crollo della sinistra nelle elezioni amministrative e regionali del 28 maggio, in cui la destra ha mantenuto tutti i suoi feudi e strappato vari territori al progressismo – per Sánchez sembrava pronto il de profundis, con le elezioni di fine anno (le generali erano previste per dicembre 2023) a sancire un epilogo inevitabile. E invece, Sánchez mette in scena un colpo di teatro, uno dei tanti a cui ci ha ormai abituato, e convoca elezioni anticipate in piena estate. Con una emergenza climatica sempre più pressante – e asfissiante -, la Spagna è andata per la prima volta al voto in “alta stagione”, con temperature e condizioni proibitive, e una campagna elettorale estremamente lenta, sporca e povera di contenuti.
Una scelta che, a posteriori, si è rivelata corretta. Evitando lo stallo degli ultimi mesi di legislatura e la morte (politica) per asfissia, Sánchez ha sparato le sue ultime cartucce e si è andati alle urne senza dare la possibilità alla destra di affondare ulteriormente il colpo nel fronte del progressismo, e a Sumar – nuova piattaforma politica che include Podemos e Izquierda Unida, alleati di coalizione nella passata legislatura – di organizzarsi per tempo. Il PSOE, dato per morto, è riuscito ad ottenere 122 seggi, una dozzina in più rispetto alle aspettative iniziali, e migliorando i risultati ottenuti quattro anni fa (120 seggi). Fondamentale l’avanzata straordinaria in Catalogna, in cui i socialisti vincono ovunque.
Adesso, per arrivare ai 176 deputati necessari per ottenere la fiducia – tra appoggi ed astensioni – dovrà fare affidamento anche sugli indipendentisti di destra di Junts x Catalunya (JxCat), partito di Carles Puigdemont che, nel 2017, fu costretto all’autoesilio a Bruxelles dopo lo svolgimento del referendum per l’indipendenza (ovviamente non concordato con Madrid e l’allora premier Mariano Rajoy).
Sánchez è fiducioso e assicura alla direzione di partito che otterrà gli appoggi necessari e già dal balcone della sede del PSOE in Calle Ferraz esultava: “il blocco dell’involuzione ha perso”. Parole che hanno lasciato perplessi tanti analisti ma che, a conti fatti (ovvero, fatti i conti con l’oste e i partiti regionalisti), è proprio il PSOE ad avere le maggiori probabilità per formare un nuovo governo.
La sinistra di Sumar si salva con il minimo indispensabile
E se il Partido Popular ha vinto le elezioni in Spagna e il Partido Socialista vince, probabilmente, la Moncloa, anche Sumar si avvale del diritto di alzare indice e medio. Festeggia Yolanda Díaz, ministra del lavoro e responsabile di una delle riforme più apprezzate dall’elettorato progressista. Sumar ottiene 31 seggi, in calo rispetto al quanto ottenuto alle elezioni del 2019 da Podemos e Izquierda Unida, ma comunque abbastanza per poter entrare nuovamente nell’esecutivo come socio di minoranza dei socialisti. Nonostante le lotte fratricide (e qui è stata notevole la battaglia interna tra la Díaz e Irene Montero, ministra delle pari opportunità) e l’assenza di una struttura organizzata, Sumar è riuscita a portare a casa l’obiettivo. Certo, in un eventuale governo Sánchez III, Yolanda Díaz non potrà esigere troppi ministeri. Però, l’apporto della sinistra sarà ancora una volta decisivo, anche solo per allontanare il PSOE dalle politiche centriste a cui, in passato, aveva più volte rivolto lo sguardo. La carica semi-rivoluzionaria dei primi anni di Podemos è ormai un ricordo, ma rimane il pragmatismo di una forza politica che ha saputo sfruttare al meglio le proprie opportunità per incidere fortemente sulle riforme.
Elezioni Spagna 2023: per l’estrema destra di Vox è una sconfitta sia elettorale che strategica (ma con qualche attenuante)
Si ritorna, così, all’inizio, agli unici grandi sconfitti tra i partiti nazionali della Spagna. In questo caso, si sottolinea, sconfitta non solo di stampo elettorale (qui Vox è in buona compagnia dello stesso PSOE, di Sumar e altri partiti regionalisti) quanto strategica. Vox si è confermato terzo partito del Paese – ed è indubbiamente un grande risultato – ma doveva puntare a “tenere botta” per regalare il governo di coalizione ai suoi sostenitori.
Vox ha perso 19 seggi, passando da 52 a 33 deputati. Un crollo legato al forte recupero dei popolari e a un ritorno di fiamma del bipapartismo. Inoltre, la intellighenzia spagnola ha sostenuto apertamente i popolari, con uno dei guru della destra Federico Jiménez Losantos che ha guidato l’elettorato di destra verso il voto utile.
Santiago Abascal non è riuscito a capitalizzare l’appoggio degli ultraconservatori di mezza Europa (e non solo). Non bastano Meloni, Orban e Morawiecki a garantire un buon risultato. Nonostante i tanti messaggi – in presenza e non – da parte dell’internazionale conservatrice, Vox ha perso più di mezzo milione di voti. Inoltre, con la Moncloa a tiro, i partiti regionalisti si mettono di traverso e parano la strada alla formazione che vuole metterli al bando e renderli fuori legge. Con la crisi catalana in stand-by, la forza dirompente di Vox degli anni passati è stata sedata. Si tratta, infatti, di un partito che ha dimostrato la necessita di una crisi dell’unità nazionale per poter convincere l’elettorato di destra a decantarsi per loro e non per i popolari. Un problema, questo qui, che ha attanagliato anche gli stessi partiti indipendentisti catalani.
Catalogna al centro della Spagna, mentre il Re prepara le conversazioni alla Zarzuela
E il futuro della Spagna passa nuovamente per la Catalogna. Sánchez avrà bisogno dell’astensione degli indipendentisti liberali di Junts x Catalunya per arrivare alla maggioranza semplice nella seconda sessione di investitura. Si conferma come il panorama politico spagnolo sia radicalmente cambiato rispetto a dieci anni fa, in cui vigeva una alternanza e un bipartitismo quasi perfetto. Dall’ingresso di Podemos, Ciudadanos (partito liberale ormai scomparso dai radar) e Vox, i partiti maggiori non hanno avuto più la forza per governare in autonomia. Questo ha permesso ai partiti regionalisti di assumere una centralità sempre maggiore.
La nuova Legislatura comincerà ufficialmente il 17 agosto, con l’insediamento dei nuovi deputati e senatori. Nel frattempo, il re Felipe VI prepara le sue carte e comincia, ufficiosamente, a sondare il terreno, prima delle consultazioni che avverranno nel Palacio della Zarzuela. Sarà lui che dovrà affidare l’incarico per la formazione di Governo. E qui, non c’è nulla di scritto, perché se Sánchez ha maggiori probabilità di ottenere la maggioranza, è pur vero che Alberto Nuñez Feijóo si è guadagnato sul campo il diritto di provare a guidare un nuovo esecutivo. La partita, in Spagna, è appena cominciata.