Non confondiamo antisionismo con antisemitismo
Probabilmente è uno degli equivoci terminologici più longevi della storia del secolo breve e di questo primo quarto di XXI secolo. Con l’escalation improvvisa del conflitto israelo-palestinese, i media tornano a darvi ampio spazio. L’operazione lanciata da Hamas ha esposto Israele a perdite civili importanti, con il numero di morti che sale di ora in ora, e centinaia di ostaggi che sono stati portati nei tunnel della striscia di Gaza e pronti ad essere utilizzati come moneta di scambio.
Dall’altro lato, lo Stato di Israele ha risposto nella maniera più aggressiva possibile, avviando un bombardamento a tappeto dei territori palestinesi e colpendo anche degli ospedali civili. Il ministro della Difesa israeliano ha affermato che verrà portato avanti l’assedio totale di Gaza, tagliando ogni tipo di rifornimento possibile: benzina, cibo, acqua. Nulla potrà entrare in Palestina. E dopo il primo attacco di Hamas, il numero di civili palestinesi uccisi nel giro di 48 ore si avvicina al migliaio.
Una guerra asimmetrica…
Il conflitto israelo-palestinese è definibile “guerra asimmetrica”. Questo concetto risulterà fondamentale per giungere al punto della questione, su quella notevole differenza tra antisemitismo ed antisionismo. Per una questione metodologica e di uniformità, riprendiamo la definizione dei termini chiave dalla stessa fonte: la Treccani.
“La guerra asimmetrica è un conflitto non dichiarato, con notevole disparità di risorse militari o finanziarie e nello status dei due contendenti. Il contendente militarmente ed economicamente più forte deve difendersi da un avversario difficilmente individuabile, trovandosi in situazione di svantaggio”.
Secondo l’analisi di Global Firepower, Israele dispone del 18esimo esercito più forte al mondo. I dati ufficiali sulle morti legate al conflitto che vanno dal 2008 al 2020 parlando di 5.603 civili palestinesi e 251 civili israeliani.
…E come si combattono
Considerata la disparità di risorse che impedisce uno scontro aperto tra i contendenti, la parte più debole deve far ricorso a tattiche di guerra non convenzionali. La prima che viene in mente è quella del terrorismo, qui definita come l’uso di violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine, mediante azioni quali attentati, rapimenti, dirottamenti di aerei e simili.
Nota bene: l’essere la parte debole di una guerra asimmetrica non giustifica o legittima atti contro civili, ma spiega la logica militare dietro tali attentati e incursioni: che queste non sono dirette esclusivamente al popolo israeliano, bensì volte a minare la forza e la stabilità dell’esercito attaccante, ovvero quello dello Stato d’Israele. L’uccisione di civili è uno strumento per colpire il potere militare e politico e non un tentativo di epurazione e rimozione del popolo ebraico. Ecco che la natura stessa del conflitto si rivela, non come un conflitto di religione o tra popoli (per quanto l’odio reciproco si sia esacerbato nel corso di questa guerra settantennale), ma come conflitto tra Stati (al netto della legittimità o riconoscimento degli stessi da parte della Comunità Internazionale).
L’ideologia sionista e l’occupazione progressiva del territorio palestinese
Riprendiamo, sempre secondo la Treccani, la definizione di Sionismo = Movimento politico-religioso ebraico, espressione di vari orientamenti ideologici, costituitosi a Basilea nel 1897 allo scopo di creare in Palestina uno stato nazionale indipendente per il popolo ebraico, e praticamente esauritosi nel 1948, con la proclamazione dello Stato d’Israele. Quest’ultima parte, tuttavia, nella pratica politica, nel governo israeliano, non si è mai esaurita, portando a ridurre sempre più le aree sotto il controllo della Palestina grazie ad insediamenti progressivi. Nella visione sionista, l’espansione territoriale entro i confini della Terra assegnata da Dio è quindi pienamente legittima. Inoltre, sempre secondo i teorici sionisti, il popolo palestinese non esiste e non ha alcun diritto su quelle terre. Si vede, quindi, che il sionismo come ideologia incide direttamente sulla politica estera dello Stato d’Israele. L’antisionismo, quindi, è il rifiuto e il contrasto alle pratiche politiche legate a tale ideologia.
D’altra parte, l’Antisemitismo = Avversione e lotta contro gli Ebrei, manifestatasi anticamente come ostilità di carattere religioso, divenuta in seguito, spec. nel sec. 20°, vera e propria persecuzione razziale basata su aberranti teorie pseudoscientifiche. In questo caso, si parla apertamente di avversione verso un popolo e di un concetto molto più antico e radicato. L’antisemitismo si lega al razzismo, cosa che, invece, non succede – almeno in maniera naturale, diretta, consustanziale – nell’antisionismo.
Degli esempi
Per mostrare la perversione di questa sovrapposizione, basterà pensare ad altre coppie di termini equivalenti, ovvero di termine che indica odio razziale verso un popolo X, e l’avversione e ostilità verso una dottrina e pratica politica dello Stato di suddetto popolo.
Immaginate , quindi, che negli anni del ventennio si fosse parlato di italofobia al posto di antifascismo. Che per la Germania del Terzo Reich si parlasse di germanofobia e non di antinazismo. Che al giorno d’oggi, si usasse con leggerezza il richiamo alla sinofobia per attaccare il capitalismo di stato cinese (e, quindi, ridotto ad un termine, all’anticomunismo). Non suona corretto, vero?
Il grande equivoco nei media italiani su antisemitismo e antisionismo, e le sue conseguenze
Giungiamo così, finalmente, al punto focale. In televisione, radio e giornali, nel parlare del conflitto israelo-palestinese e dell’attentato di Hamas, si sente parlare di “attacco contro il popolo d’Israele”, “violenze e attacchi di matrice antisemita” et similia. Si tratta di una terminologia che viene ripresa anche dal mondo politico, in particolare da quella dell’area governativa. Questo comporta uno spostamento radicale del focus del conflitto. In primis, si riduce la lunghezza e la complessità del conflitto israelo-palestinese a un atto e attacco di odio razziale. I 75 anni di storia della questione israelo-palestinese che vanno dal 1948 ad oggi vengono oscurati e l’obiettivo primario è quello di mostrare una visione martirizzata del popolo israeliano. Limitandosi a vedere solo il momento presente, non si riesce a valutare idoneamente il ruolo e le motivazioni degli attori coinvolti e, di conseguenza, a mostrare una visione quanto più oggettiva della realtà e a ragionare su azioni e soluzioni degne della complessità e della drammaticità del conflitto. Inoltre, si è rilevato, per ora, come la cruenta ed efferata risposta dello Stato Israele sui civili palestinesi sia passata in sordina sulla gran parte dei media nazionali. In questo senso, si rileva un tono di voce asimmetrico nel raccontare il conflitto.
Conflitto israelo-palestinese, antisemitismo e antisionismo. Un disclaimer di chiusura
Questa analisi non vuole giustificare le azioni terroristiche di Hamas né tantomeno la pratica di dominazione e vessazione messa in campo in 75 anni dallo Stato di Israele nei confronti del popolo palestinese. Non è un articolo di analisi politica bensì di analisi di comunicazione. Si è voluto incidere sull’importanza dei termini utilizzati – fin troppo impropriamente – dal mondo della politica e quello dei professionisti della comunicazione. Dico impropriamente ma, così come altre confusioni terminologiche, si può dire che siano utilizzate in maniera “volutamente impropria”.