Sul premierato ci sarà da discutere a lungo. L’analisi
Dopo anni passati a parlare di presidenzialismo e di una virata verso una maggior stabilità dell’esecutivo, qualcosa si è (concretamente) mosso. In piena fase di discussione sulla legge di bilancio, la premier Giorgia Meloni ha lanciato la proposta di premierato, con una bozza in 5 punti da cui partire e che andrebbe a riformare la stessa Costituzione. Si tratta di un’iniziativa che poteva essere facilmente prevista, in quanto cavallo di battaglia sia di Fratelli d’Italia che della Lega. E più che parlare di presidenzialismo – con una marginalizzazione eccessiva dei partiti – si parla di un “premierato”, dove il premier viene eletto direttamente dai cittadini. E la famosa frase “Il premier XXX (sostituire con nome a piacere, n.d.r.) non è stato eletto da nessuno” trova la sua risposta in questa proposta.
Governabilità contro rappresentatività: alla costante ricerca di un bilanciamento perfetto
Nel nostro Paese, è uno di quei temi cardine su cui girano le riforme elettorali. Maggior governabilità o maggior rappresentatività? Cosa possiamo cedere dell’uno per favorire l’altro? Dov’è il giusto compromesso? È una domanda totalmente legittima, per uno dei Paesi con la durata media degli esecutivi più bassa d’Europa, avendo visto ben 68 Governi diversi in 75 anni di storia repubblicana. E, per quanto tutta l’epoca della Prima Repubblica si fosse contraddistinta per il potere centrale e ineluttabile della Democrazia Cristiana, come attore chiave e indispensabile nella formazione di ogni governo, è pur vero che le crisi erano all’ordine del giorno. E via in crescendo, prima col bipolarismo (che più che riassumibile in destra/sinistra, potrebbe essere posto come berlusconismo/antiberlusconismo) e, poi, con un multipolarismo (dal 2013 con l’irruzione del M5S) ancor più destabilizzante e foriero di incertezze. Tranne per rarissimi casi, la durata di un esecutivo non è mai corrisposta a quella di una legislatura. Anche nel caso più recente che va dal 2001 al 2006, con Berlusconi unico premier della Legislatura, ci fu una crisi che portò alle sue dimissioni – e successivo re-incarico – che portò l’Italia dal Berlusconi II al Berlusconi III.
Con la disaffezione, aumenta la necessità di incidere direttamente
Negli ultimi anni, dal governo tecnico di Mario Monti (che subentrò allo stesso Berlusconi nel 2011) in poi, il pensiero relativo all’elezione diretta del premier ha preso piede in modo trasversale. Oltre alla “minaccia tecnocratica”, questa idea si lega a doppio filo alla disaffezione e sfiducia nelle Istituzioni e negli stessi partiti politici, che vengono visti sempre più lontani dalle esigenze dei cittadini, dalla realtà quotidiana del Paese. E se in passato si verificava una forte identificazione con i partiti, grazie anche ad un importante radicamento territoriale (si pensi ai tre principali partiti della Prima Repubblica quali Democrazia Cristiana, Partito Comunista e Movimento Sociale Italiano), negli ultimi anni questa componente è andata via via scemando. Uno dei principali motivi di disaffezione politica di questo secolo riguarda la sensazione di non avere una vera possibilità di incidere politicamente. Pertanto, l’espressione di un voto diretto, a un soggetto ben concreto, rappresenta un riavvicinamento a quell’idea di potere (e dovere) del cittadino.
Il nodo chiave della legge elettorale e la possibile sparizione di partiti minori
Ma ad una riforma di questa portata, che punta non solo all’elezione diretta del Presidente del Consiglio ma anche ad una maggior governabilità, si deve accompagnare necessariamente ad una nuova legge elettorale. E quella proposta da Giorgia Meloni, in realtà, avvicina molto più il sistema italiano a un presidenzialismo di fatto, considerato il premio di maggioranza al 55% dei seggi totali per la coalizione vincitrice. Questo, in maniera più che evidente e senza portare calcoli concreti, ridurrebbe di molto le opportunità, di partiti minori, di entrare in Parlamento. Si andrebbe, così, verso un rafforzamento del voto utile (da un lato) e verso una dispersione e perdita del voto (dall’altro). Tanti, infatti, potrebbero essere i voti “bruciati” per quei partiti che non riusciranno a superare la soglia di sbarramento (legale e reale) per entrare in Parlamento. Ciò comporterebbe una riduzione della pluralità delle voci in Parlamento e la riduzione della rappresentatività: sia di una fetta di popolazione, sia di interessi. In questo modo, inoltre, anche il dibattito parlamentare potrebbe essere fortemente svilito. Considerata l’importante premio di maggioranza garantito alla coalizione che esprimerà il Premier, nella gran parte dei casi e per l’intera legislatura non ci sarebbe bisogno di passare da un dibattito con le opposizioni.
L’elezione diretta del premier piace quasi a tutti
Oltre alla necessità di affrontare questo dibattito nelle sedi parlamentari, c’è da sondare anche l’umore degli italiani rispetto alla proposta. Riprendendo l’ultimo sondaggio di SWG, quello che si evince è che l’idea di premierato (elezione diretta del presidente del consiglio dei ministri) convince tantissimo l’elettorato di maggioranza (82%) e buona parte di quello d’opposizione (53%). Discorso diverso, invece, per quanto riguarda la forma di governo. Il passaggio dal parlamentarismo al presidenzialismo divide la popolazione tra favorevoli (42%) e contrari (40%). Va sottolineato che se la prima domanda risulta estremamente semplice, quella legata alla forma di governo è soggetta a tante variabili, in primis alla propria conoscenza riguardante l’argomento e alla propria idea di cosa sono parlamentarismo e presidenzialismo. Altro dato rilevante riguarda la volontà di ampliare i poteri del premier: il 79% degli elettori che sostengono questo governo è favorevole. Entrando invece tra le fila degli elettori dell’opposizione, questa percentuale scende al 35%. A riprova che, almeno dal lato del centro moderato fino a sinistra, si cerca di salvaguardare maggiormente la rappresentatività degli interessi e delle pluralità, mentre tra liberali e conservatori si punta ad una maggior stabilità governativa.
Appunti sparsi sul premierato: una risposta “naturale” agli sviluppi di pratica politica e comunicazione politica
Entrando in un’analisi maggiormente ardita, si può affermare che la volontà di passare al premierato sia frutto non solo di strategia comunicativa, ma anche di riflesso di una vera e propria evoluzione dei rapporti di forza tra leader politici, premier e partiti. Partendo proprio da questo elemento, abbiamo assistito negli anni – in particolare dal governo Renzi – ad un uso sempre più forte dell’istituto della Fiducia (che di fatto “blocca” la discussione parlamentare) e a quello dei decreti legge (prorogati a più riprese ed emanati anche senza un vero criterio di emergenza).
Gli esecutivi già da qualche anno e indipendentemente dal colore politico si sono spinti sempre più nel campo della produzione legislativa, quadrandola con le attività proprie dei dicasteri. De facto, ci stiamo già muovendo, nella prassi politica, verso il rafforzamento dell’Esecutivo a discapito del Parlamento. Tra i fattori che hanno spinto verso questa direzione c’è la concreta accelerazione delle dinamiche politiche ed economiche. Così come la velocità è, oggi, un elemento chiave per l’imprenditoria, anche un Paese necessità di stare al passo ed agire con celerità per non rimanere indietro. Ecco che quella propensione che si riscontra nel mercato e nella società civile, si trasla (a torto o ragione) anche alle Istituzioni.
L’antropomorfizzazione dei partiti e la scelta di seguire il leader
Un altro elemento che ci spinge verso il premierato è la tendenza all’iper-personalizzazione dei partiti. Se in passato i partiti avevano una identità estremamente chiara e definita, che poteva variare solo in maniera marginale con l’avvicendamento dei leader, al giorno d’oggi è l’opposto. I leader hanno una propria identità e la imprimono con forza sul partito. In questo processo – definibile come antropomorfizzazione dei partiti -, il leader politico assume un ruolo chiave perché, in funzione della sua identità, definisce anche il partito stesso, il suo posizionamento, il suo target elettorale. Pensiamo solamente a come sia cambiato l’immaginario sul Partito Democratico nel passaggio da Enrico Letta ed Elly Schlein. D’immediato, si è collocato il partito molto più a sinistra, competendo con il Movimento 5 Stelle. E questo, senza ancora aver avuto modo di osservare l’operato di Schlein come segretaria di partito. Basta, però, la figura, che da europarlamentare si è battuta per la riforma del trattato di Dublino e che si è battuta fortemente per l’estensione dei diritti civili in Italia.
Non possiamo nemmeno dimenticare il cambiamento sostanziale avvenuto, stavolta a destra, con il passaggio dalla leadership di Bossi a quella di Salvini, con quest’ultimo che ha avvicinato l’elettorato grazie ad un modo di fare estremamente popolare, e rilanciato la Lega – almeno per un periodo – come il partito più vicino alle masse.
Tutto questo avviene per via della sovraesposizione mediatica dei leader (principali invitati nei talk show italiani) e per il rafforzamento generale dei loro personali canali di comunicazione. Un vero e proprio broadcast alternativo a quello di partito che gode, tendenzialmente, di molta maggior visibilità. Il confronto dell’elettore – uno a uno – con il leader è sicuramente più stimolante rispetto al seguire l’account di partito. Nel primo caso, infatti, c’è un elemento fondamentale di vicinanza e prossimità. Ecco che l’elettore si identifica con il leader e vota lui (o lei), piuttosto che il partito.
Una carta giocata nel momento giusto
La premier Meloni si è giocata la carta del premierato nel momento giusto, provando a distogliere l’attenzione dal lavoro sulla legge di bilancio per il 2024. A conti fatti, l’attuale legge di bilancio potrebbe scontentare un po’ tutti. Finanziata a deficit, dovrebbe portare a 10 miliardi di tagli nel corso dei prossimi tre anni. Inoltre, è proprio qui – dalla legge di bilancio – che escono i temi più chiari alla popolazione italiana, in primis la lotta all’inflazione, l’aumento dei salari e gli sgravi fiscali.