Niente di nuovo sul fronte americano
Le elezioni di martedì hanno reso più amaro il primo anniversario della vittoria di Barack Obama. Il presidente si è speso forse più di quanto sarebbe stato auspicabile – un errore già commesso poco tempo fa con il flop del tentativo olimpico di Chicago – e le sconfitte democratiche in Virginia e New Jersey , le due consultazioni più importanti, riportano sulle terra le supposte doti taumaturgiche del primo inquilino nero della Casa Bianca. Giovani e minoranze etniche, componenti essenziali della coalizione sociale obamiana, sono rimasti tranquillamente a casa, condannando così alla sconfitta Corzine e Deeds, le due vittime più significative della rimonta repubblicana. Una resurrezione però molto parziale, dato che si parla di elezioni dove ha votato poco più della metà degli elettori di un anno fa.
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[ad]Gli exit poll hanno illustrato dati già rilevati dalla gran parte dei sondaggi. Ad un anno di distanza, l’entusiasmo dell’elettorato democratico e la rabbia anti Bush/ anti Gop degli indipendenti sono ormai archiviati. Il tasso di disoccupazione al 10%, i controversi salvataggi statali che hanno aggravato la situazione debitoria del governo federale e lo stallo di alcune riforme hanno ridotto il vantaggio dei democratici che aveva portato prima alla riconquista del Congresso e poi alla storica vittoria di Obama. Un fenomeno antico, che caratterizza il sistema politico statunitense. Nel dopoguerra, solo 2 volte il partito che esprimeva la Casa Bianca ha conquistato le elezioni di medio termine, in circostanze definibili come eccezionali. Il post 11 settembre che galvanizzò i repubblicani nel 2002, e la rabbia contro l’impeachment che portò alla tenue vittoria democratica nel 1998. E’ dunque probabile che l’anno prossimo si scriverà di una sconfitta liberal alle midterm, anche perché una maggioranza così ampia mancava al Congresso da oltre 30 anni. Sull’eventuale vittoria del Gop nel 2010 le elezioni di martedì non hanno però detto praticamente nulla.
New Jersey e Virginia hanno proseguito la ormai ventennale tradizione che manda all’opposizione nello Stato il partito al potere a Washington Dc. Più che indicative del futuro, le due consultazioni confermano tendenze già note dell’elettorato americano, la diffidenza verso l’eccesso di potere nelle mani di una singola formazione politica e le difficoltà degli incumbent in periodi di crisi. Perfino Bloomberg, che ha speso circa 100 milioni di dollari contro i neanche 10 del suo sfidante, ha rischiato di perdere un’elezione sostanzialmente abbandonata dai democratici.
Gli exit poll hanno inoltre mostrato un discreto tasso di approvazione del presidente: 57% in New Jersey, dove il 20% di chi apprezza Obama ha votato contro il democratico, l’impopolare Corzine. In Virginia lo score del presidente si è attestato al 48, in un elettorato molto diverso da quello di novembre 2008, e la stessa percentuale, un quinto di chi approva l’operato presidenziale, ha votato per il Gop. Alle urne per le governatoriali la maggioranza arrideva però agli elettori di McCain, al 51% rispetto al 43% di chi aveva scelto Obama. Uno swing di 14 punti molto simile al margine di vittoria ottenuto dal repubblicano McDonnell, che ha ottenuto una vittoria così convincente da potersi immaginare una scalata alla politica nazionale.
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[ad]La rimobilitazione della base democratica sarà dunque essenziale per affrontare il giudizio di metà mandato degli statunitensi, solitamente severo. L’entusiasmo di alcuni commentatori repubblicani, giustificato solo per l’amarezza d i tonfi del 2006 e del 2008, è però molto affrettato. Nelle due suppletive per la Camera dei Rappresentanti i democratici hanno vinto, come era nelle aspettative in California, mentre a New York hanno strappato un seggio detenuto dal partito di Lincoln da circa 150 anni. L’eroe dei Tebaggers e dei commentatori FoxNews, il conservatore Douglas Hoffman, ha costretto al ritiro la moderata repubblicana Scozzafava, ma ha regalato il seggio ai democratici. Un esito sorprendente, poiché nell’ultimo decennio solo una volta nel 2001 il partito all’opposizione aveva perso un’elezione speciale della Camera. Una sconfitta che consegna a Obama e alla leadership congressuale un Congresso leggermente spostato a sinistra proprio quando arriva il momento decisivo della riforma sanitaria. Un democratico moderato ha sostituito un repubblicano centrista a New York, mentre in California un liberal ha preso il posto di una clintoniana.
A conferma di risultati più variegati di quanto raccontato sui media, due referendum promossi dalla destra antistatalista in Maine e a Washington, simili nell’ispirazione alla celeberrima Prop 13 che lanciò Reagan, sono stati sconfitti nettamente, mentre lo Stato del New England ha bocciato ancora una volta i matrimoni gay. Considerando che in New Jersey i repubblicani hanno guadagnato solo un mandato all’Assemblea legislativa, rimanendo così in netta minoranza, e che in Virginia sono stati strappati solo 4 seggi ai democratici, nonostante la vittoria a valanga del ticket Gop, i veri vincitori appaiono i candidati governatori.
McDonnell e in misura minore Christie hanno intercettato la mobilitazione dell’elettorato conservatore e la parziale disaffezione di quello moderato rispetto ai democratici, e più in generale rispetto ai politici al potere, basandosi su un messaggio pragmatico e non divisivo, tanto che lo stesso McDonnell si era perfino complimentato con Obama per il premio Nobel.
Un messaggio non proprio coerente rispetto a quanto vuole la base conservatrice, che si innamora di politici, Palin prima e ora Hoffman, indigeribili per la maggioranza degli americani. Negli Stati Uniti si vince al centro, da sempre, e la tornata elettorale di ieri, quasi ossessiva nel rispettare la tradizione degli Stati chiamati al voto e il carattere locale di queste competizioni, lo conferma ancora una volta.
Niente di nuovo sul fronte americano, e mai lo si sarebbe potuto trovare quando solo la metà degli elettori delle presidenziali si presenta alle urne.