La politica carismatica da Berlusconi a Grillo
La politica carismatica da Berlusconi a Grillo
Qualche volta capita di poter dire “L’avevo detto”. Ed è con una certa soddisfazione, che chi scrive aveva previsto, e ora annota, il crollo verticale e improvviso, attestato dalle ultime elezioni amministrative, dei movimenti leaderistici che avevano dominato la politica degli ultimi anni, vale a dire la Lega e il Pdl.
[ad]Quelli che sembravano grandi atout competitivi (una leadership carismatica, il dissenso interno celato o inesistente, la possibilità di parlare con una voce sola davanti all’opinione pubblica), una volta esaurito, per i motivi più diversi (gli scandali, la crisi economica), il fascino del leader, si sono dimostrati presto debolezze fatali. Questi enormi colossi, così imponenti, così ammirati da tanti politologi, erano fragili, tanto più fragili perché monolitici. Una volta caduti, si sono spezzati in mille frammenti. Lega e Pdl pagano ora tutto in una volta la carenza di vita democratica, l’intolleranza al dissenso interno, l’impermeabilità alla cultura e al mondo intellettuale. E pagano in modo quasi irreparabile, salvati solo dal poco che resta del radicamento territoriale (la Lega) e dalla capacità residuale di rappresentare un blocco sociale e una sensibilità di destra (il Pdl).
Nemmeno gli altri partiti di stampo leaderistico se la passano troppo bene: la sbornia-Vendola si è quasi del tutto esaurita, e Sel non si schioda da percentuali dignitose, ma lontane da quelle della Rifondazione dei tempi migliori. Va un po’ meglio a Di Pietro, che però sembra aver raggiunto i suoi massimi al 6-7 per cento,perché la sua ingombrante figura di leader impedisce la nascita di una vera forza politica strutturata. Casini e Fini ormai rappresentano poco più che se stessi. Al contrario, come pronosticato tanto tempo fa, il modello Pd resta, se non vincente, di certo il più flessibile e adatto ad affrontare la bufera politica della fine della Seconda repubblica. Quelli che sembravano i suoi punti di debolezza si sono trasformati in punti di forza. I dissidi interni si sono rivelati un buon modo per tenere insieme, e far lavorare insieme, anime e sensibilità diverse. Le sconfitte alle primarie si sono facilmente trasformate in buoni successi elettorali, confermando il “potere di coalizione” del partito, la cui generosità è apprezzata dagli elettori. La militanza diffusa e il radicamento del territorio hanno aiutato a raccogliere il testimone abbandonato dai partiti carismatici, anche in zone “ostili” (la Lombardia, ad esempio). L’apertura alla società civile, e al mondo della cultura, seppure insufficiente è molto superiore a quella degli altri partiti, perché l’ampia base di attivisti e militanti favorisce una contaminazione. L’appoggio al governo Monti, che per gli altri partiti è un’insopportabile camicia di forza, dagli elettori Pd, pur tra mille mugugni e tanti distinguo, viene compreso e approvato. In percentuale, il Pd regge intorno al 25-27 per cento, perde in voti assoluti (perché cala la partecipazione), ma probabilmente, con affluenze più alte, sarebbe anche più forte, perché la bassa affluenza tende a premiare i partiti piccoli e sottodimensionare quelli grandi.
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